Giornali, librerie, cinema. Così Hong Kong è diventata Pechino

La libertà perduta dell'ex colonia inglese e il destino parallelo con Taiwan, l'ultima frontiera della democrazia nel mondo cinese

Giulia Pompili

Chiude l'Apple Daily, dopo gli arresti e le intimidazioni da parte delle autorità. La legge sulla sicurezza introdotta un anno fa ha già costretto moltissimi a fare compromessi con l'autoritarismo. Il rischio è di finire in carcere

I rappresentanti istituzionali di Taiwan a Hong Kong dovranno lasciare la regione ormai non più autonoma. L’Amministrazione di Hong Kong ha chiesto più volte ai cittadini taiwanesi che lavorano nell’ex colonia inglese di firmare un documento che riconosca “una sola Cina” come condizione per il rinnovo dei loro visti di lavoro. Avrebbero dovuto firmare o andarsene: “I nostri funzionari stanno tornando a casa”, ha scritto ieri su Twitter Kolas Yotaka, portavoce della presidenza di Taiwan. Soltanto un mese fa, il governo locale di Hong Kong aveva chiuso il suo ufficio di rappresentanza a Taipei per “interferenze negli affari interni”. Tradotto: sappiamo che proteggete gli attivisti che noi definiamo “violenti e  facinorosi”. 


Dopo l’introduzione della Legge sulla sicurezza, lo scorso anno, l’autonomia di Hong Kong è stata completamente schiacciata dall’autoritarismo di Pechino. Non c’è più tolleranza verso le velleità di libertà degli abitanti dell’ex colonia inglese. La Cina, e con lei i funzionari del governo di Hong Kong ormai tutti asserviti al volere del governo centrale, sanno benissimo cos’è che bisogna cancellare per intimorire, ma soprattutto per spegnere lentamente quella fiammella di ribellione che era sempre stata accesa a Hong Kong. Bisogna colpire l’educazione, l’informazione, lo scambio culturale. Qualche giorno fa, con l’ennesimo atto intimidatorio, cinquecento agenti di polizia sono entrati dentro alla redazione dell’Apple Daily, uno degli ultimi giornali di opposizione rimasti  a Hong Kong. Hanno arrestato diverse persone tra cui il direttore. L’editore era già agli arresti da tempo. Hanno congelato i beni del giornale, che in queste condizioni non potrà più essere stampato. 


Ma non c’è solo l’informazione. Un paio di settimane fa  Hong Kong ha annunciato di aver aggiornato l’ordinanza sulla censura, dando alla commissione il potere di bloccare la trasmissione, la proiezione e la messa in scena di film, pellicole e spettacoli che “rappresentino, descrivano o trattino  qualsiasi argomento o attività che possa costituire un reato mettendo in pericolo la sicurezza nazionale”. E’ la fine di Hong Kong come luogo di espressione artistica, libera dai legacci della narrazione ufficiale del Partito comunista. Anche i librai di Hong Kong stanno facendo molti compromessi con il nuovo sistema. Le librerie sono stati luoghi fondamentali nella costruzione della società civile dell’ex colonia inglese –  basta ricordare la vicenda dei cinque librai della Causeway Bay Books scomparsi nel 2015. Dopo l’introduzione della Legge sulla sicurezza, ha scritto qualche giorno fa sul New York Times Tiffany May, i libri più controversi scompaiono man mano dagli scaffali (ufficialmente almeno 34 volumi, fa sapere il Dipartimento di cultura di Hong Kong). Eppure diverse librerie stanno cercando modi sempre più creativi per non violare la legge (e quindi finire in galera) e continuare a usare i libri come strumenti per l’attivismo.


Ma è soprattutto Taiwan adesso il luogo a cui Pechino guarda con più sospetto: l’isola di Formosa è libera e indipendente, ed è tutto ciò che Hong Kong non potrà più essere. I destini di Hong Kong e di Taiwan si sono incrociati più volte nel corso della storia. Alla fine dell’Ottocento è in un giardino dell’ex colonia inglese che si inizia a parlare del sovvertimento della dinastia Qing in Cina. E’ a Hong Kong che si gettano le basi per la costruzione di quello che poi sarà il partito Kuomintang, il movimento che sotto la guida di Chiang Kai-shek porterà la Repubblica di Cina sull’isola di Taiwan. La ritirata avrebbe dovuto essere momentanea, un periodo di attesa per riarmarsi e poi sconfiggere la Repubblica popolare cinese, ma non è andata così. Il Partito comunista di Mao è cresciuto, si è rafforzato, e nel frattempo il resto del mondo ha iniziato a pensare ad altro. Per esempio all’enorme opportunità che poteva essere entrare nel mercato del paese più popoloso del mondo,  poi al comunismo cinese da usare come un’arma per fermare l’avanzata dell’Unione sovietica. Gli scambi culturali tra Taiwan e Hong Kong però sono continuati, per decenni, e nonostante tutto. E’ anche per questo che costringere a chiudere i rispettivi uffici di rappresentanza serve a Pechino a mandare un segnale che però non può essere troppo esplicito: per la Cina sia Hong Kong sia Taiwan sono lo stesso territorio, sempre cinese. Ma il Partito ha bisogno di controllare  i ragazzi di Hong Kong, perché non  subiscano il fascino e scappino nell’ultima frontiera di democrazia rimasta della cultura cinese. 
 

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.