il foglio del weekend

Uomini e topi

Giulia Pompili

L’invasione di roditori in Australia è così grave che sembra l’apocalisse. E’ una delle nostre più grandi paure. Ma a volte gli animali ci salvano

Sono ovunque. Invadono i campi coltivati, rovinano tutto quello che trovano sul loro passaggio: intere piantagioni di grano, orzo, colza, pure il foraggio destinato agli animali da allevamento. Urina ed escrementi consumano le superfici, rendono qualunque luogo insalubre e malsano. Quando comincia a far freddo si infilano nelle case, entrano nei contatori elettrici, provocano cortocircuiti che mandano a fuoco i palazzi. Muoiono e vanno in decomposizione nei luoghi più impervi e meno accessibili alla disinfestazione: dietro agli elettrodomestici, nelle intercapedini. Quell’odore acre resta nell’aria, sui vestiti, nei ricordi delle persone. 

 

Contare i topi che da mesi invadono l’area orientale dell’Australia è “come pensare di contare le stelle nel cielo”, ha detto Steve Henry, ricercatore del Csiro, l’agenzia governativa australiana che si occupa di ricerca scientifica. Herny è da mesi l’uomo più citato dai media australiani perché è considerato un guru, anzi, il pifferaio magico: è tra i massimi esperti al mondo di infestazioni di topi. L’inverno è alle porte, ha detto qualche giorno fa durante una conferenza stampa, e abbiamo notato un rallentamento nella riproduzione dei topi. Ma se il freddo non sarà abbastanza freddo da sterminare la popolazione, allora la prossima primavera potrebbe essere peggio di questa.


E’ vero, più o meno ogni dieci anni l’Australia affronta la piaga dell’invasione dei topi. Questa però è considerata la peggiore da decenni. Lo stato più colpito è quello del Nuovo Galles del sud, tra Victoria e Queensland, che ospita una delle città più popolose dell’intero continente: Sydney. 


I social network da mesi sono pieni di immagini: cadaveri di topi dentro alle centraline dell’elettricità, topi affogati dentro ai bicchieri lasciati incustoditi nelle cucine, topi che distruggono le automobili. Fiumi di topi che cadono dai controsoffitti, che escono dai fienili. Pure negli ospedali si usano i diffusori di profumo per coprire gli  odori nauseabondi che salgono dalle aree contaminate. 

 



Una combinazione di fattori ha reso l’ambiente australiano, e in particolare l’area del Nuovo Galles del sud, il luogo perfetto per la piaga dei roditori. Tutto è iniziato con una siccità devastante, che per due anni di seguito ha colpito soprattutto le aree rurali e agricole. Alla mancanza di acqua e ai magri raccolti si sono aggiunti a un certo punto gli incendi boschivi: tra il 2019 e il 2020 hanno devastato l’intera Australia, ma soprattutto la costa orientale del paese. Diciassette milioni di ettari a fuoco, più di tremila case distrutte (2.439 solo nel Nuovo Galles del sud), trentatré morti. Poi gli incendi sono stati man mano controllati. Il 4 marzo del 2020, quando mezzo mondo iniziava a fare i conti con un’epidemia e con un virus che poi avremmo chiamato Sars-Cov-2, il governo locale di Sydney dichiarava finita l’emergenza degli incendi: si spegnevano i fuochi, si accendevano i focolai. Nel frattempo le piogge arrivavano abbondanti. Per gli agricoltori è una manna dal cielo: il Washington Post qualche giorno fa ha intervistato Colin Tink, 63 anni, agricoltore, che gli ha spiegato che le piogge dopo la siccità avevano portato raccolti eccezionali, buoni per dar da mangiare agli animali della fattoria per almeno due anni. 


Neanche diciotto mesi dopo la fine dell’emergenza incendi, mentre si affrontava la nuova sfida della pandemia e si ricostruivano le case distrutte, di pioggia è iniziata a scenderne troppa. Nel giro di dieci giorni, a metà marzo scorso, nel Nuovo Galles del sud ci sono state diverse inondazioni, e un disastro simile non si vedeva da sessant’anni. L’acqua ha spinto i topi a uscire dai terreni e dai nascondigli e a cercare rifugi più sicuri. Per esempio, gli enormi silos di grano, e le fattorie, piene di cibo e quindi il posto perfetto per riprodursi. Il governo australiano l’“invasione” è quando, per ogni ettaro di terreno, ci sono tra ottocento e mille esemplari di topi. Colin Tink, soltanto nella sua proprietà, ne cattura un migliaio a notte. “I topi hanno causato centinaia di migliaia di dollari di danni ai raccolti e ai foraggi degli agricoltori”, ha scritto una settimana fa sul sito della Abc australiana Lucy Thackray, che segue le aree rurali del Nuovo Galles del sud occidentale, ma che da un po’ è diventata anche “reporter riluttante di roditori”, cioè si occupa quasi esclusivamente dell’invasione: “Molti agricoltori hanno perso la maggior parte se non tutto il loro primo grande raccolto sin dal 2017. Anche le abitazioni e le imprese, in particolare le attività legate al cibo come negozi di alimentari e bar, sono state colpite. I topi causano ingenti danni alle auto e ai macchinari”. E il problema, scrive Thackray, è che pure uccidere i topi è diventato costoso: “I prezzi delle esche aumentano con l’aumentare della domanda”. La discussione politica degli ultimi mesi in Australia si è concentrata sul bromadiolone, un potente anticoagulante usato per uccidere i roditori. Lo chiamano il napalm dei topi, e il governo locale chiede a Canberra di autorizzarne urgentemente l’uso per aiutare la popolazione. Ma secondo gli scienziati c’è il rischio che la gran quantità di topi morti, con il veleno ancora nelle carcasse, possa diventare un problema per l’intero ecosistema. Per questo, per ora, a parte quella dei sussidi statali non è stata presa altra decisione. Il ministro dell’Agricoltura del governo centrale australiano, David Littleproud, ha detto a Sky News qualche giorno fa che Canberra continuerà ad aiutare gli abitanti del Nuovo Galles del sud e del Queensland. Per assicurare i telespettatori che sapeva bene di cosa si stava parlando, ha raccontato che nella sua casa del Queensland ha trovato il letto invaso dai topi, e il suo pigiama ridotto a brandelli. Possibile che una civiltà che arriva nello spazio, nei luoghi più lontani del sistema solare, non sia in grado di far fronte all’invasione dei topi e utilizzi gli stessi metodi che si usavano nel Trecento? Come per i contagi da coronavirus, la risposta è: sì. 


I topi sono “macchine da riproduzione”. A un mese e mezzo dalla nascita sono già in grado di riprodursi, la media delle cucciolate è di dieci esemplari. La gravidanza dura soltanto tre settimane, e non c’è bisogno di alcuna pausa tra una riproduzione e l’altra. Nel giro di una stagione riproduttiva, che dura circa otto mesi, una sola coppia di topi può aver dato vita a cinquecento topi. Milioni se si considera la crescita esponenziale. 


La pandemia, o forse più probabilmente il corso della natura, negli ultimi mesi ci ha fatti tornare a una condizione che ha riacceso antiche paure e superstizioni. Riguarda soprattutto il nostro rapporto con l’ambiente, e quindi con gli animali. Quegli animali con cui da sempre condividiamo spazi e ambienti, con cui praticamente conviviamo, e che sono necessari per l’equilibrio della natura. Quando l’equilibrio si rompe, però, iniziano i problemi. Che sia lo scoppio di un focolaio d’infezione o lo scoppio di una infestazione, torniamo sempre a quella paura originale, nonostante duemila anni di scienza e tecnologia che dovrebbero aiutarci a trovare gli strumenti per contenere entrambi. Il topo e il pipistrello, poi, sono ancora più spaventosi. Sono gli animali che evocano l’apocalisse, la fine del mondo, perché sono infestanti come le cavallette, ma al contrario delle cavallette fanno anche ammalare l’uomo. La peste veniva portata dai topi – poi, grazie alla scienza, abbiamo scoperto che era una pulce trasportata dai topi a provocarla – e a poco è servita l’umanizzazione di Walt Disney con Topolino: nell’immaginario collettivo il topo è rimasto sempre un animale di cui aver paura. Come nella leggenda tedesca del pifferaio di Hamelin, che libera il villaggio dall’infestazione di ratti ma poi, durante la notte, si porta via anche i bambini (e probabilmente la leggenda viene proprio da un’epidemia di peste che colpì l’insediamento uccidendo soprattutto bambini). L’uomo dei topi, uno dei più famosi casi clinici pubblicati da Sigmund Freud, soffriva di ossessioni anche per via di una tortura che gli avevano raccontato durante il suo servizio militare e che “si praticava in oriente”, con oggetto proprio i topi (e l’ano del malcapitato). Scrive Freud che “l’idea del topo è inseparabilmente collegata con il fatto che esso morde e rode con i suoi denti aguzzi; ma se i topi mordono, sono sozzi e voraci, non possono restare impuniti; gli uomini li perseguitano e massacrano senza pietà, come il paziente aveva talvolta visto fare, inorridendone. Spesso aveva provato un senso di commiserazione per quelle povere bestie. Ora, egli stesso era stato una volta un piccolo monellaccio disgustoso e sporco, che nella rabbia sapeva mordere chi gli stava vicino, ricevendone poi tremende punizioni. Ben poteva ravvisare nel topo il suo ‘sosia’”.  Anche nel nostro immaginario inconscio, spiega Freud, il topo non è Micky Mouse. 


Nel capitolo 20 del libro di Isaia, nell’Antico testamento, topi e pipistrelli sono i destinatari di ciò che l’uomo deve abbandonare per raggiungere la salvezza biblica. La simbologia non è casuale: “In quel giorno ognuno getterà gli idoli d’argento e gli idoli d’oro, che si era fatto per adorarli, ai topi e ai pipistrelli, per entrare nei crepacci delle rocce e nelle spaccature delle rupi, di fronte al terrore che desta il Signore e allo splendore della sua maestà, quando si alzerà a scuotere la terra”. 


Il pipistrello non è un animale malvagio, aggressivo, come siamo portati a pensare. La maggior parte delle specie è erbivora, e perfino i pteropus vampyrus, cioè i pipistrelli più grandi del mondo che fanno parte della famiglia degli pteropodidi, chiamati “le volpi volanti”, mangiano per lo più frutta. Sono quelli che possono arrivare a superare un chilo di peso, con un’apertura alare di un metro e mezzo di media, e si avvolgono nella membrana elastica delle loro ali a testa in giù: è da loro che abbiamo creato il nostro immaginario dei vampiri (vivono tra l’Indonesia e le Filippine, tranquilli). I pipistrelli “succhiasangue” esistono davvero, si nutrono anche di sangue di altri mammiferi, non succhiano il sangue ma lo leccano, sono molto più piccoli dei cugini asiatici e vivono per lo più in America centro-meridionale. Le ferite e l’anticoagulante con cui si nutre – soprattutto su capre e altri animali non giganti – sono insignificanti, insomma nessuna emorragia cinematografica. 


E’ possibile che la cattiva reputazione dei pipistrelli però venga da altro: perché i pipistrelli sono il serbatoio produttivo  di moltissimi virus, anche di quelli Sars: non abbiamo ancora scoperto come sia passato dai chirotteri all’uomo, ma anche la commissione di esperti dell’Organizzazione mondiale della sanità ritiene che sia il pipistrello il più probabile degli animali “responsabile” della pandemia del 2020. Il virus lyssavirus del pipistrello australiano provoca la rabbia,  i rossetti egiziani, una specie di pipistrello tra le più diffuse in Africa e medio oriente, sono i vettori del  virus marburg che provoca la febbre emorragica, molto simile al virus ebola, sempre trasportato, diciamo così, dai pipistrelli. E’ vero che in Cina il pipistrello porta fortuna, ma per una questione puramente linguistica: la parola “Fu”, pipistrello, viene pronunciata allo stesso modo di “buona fortuna” – per questo la zuppa di pipistrello in alcune aree tradizionali asiatiche è un piatto celebrativo. In occidente invece, sin dal Medioevo, il pipistrello è legato al demonio, all’oscuro, alla leggenda dei vampiri. Ma come per il topo, è proprio in quell’oscurità che si trova poi l’antidoto alle nostre paure e alle nostre superstizioni.


Qualche giorno fa la “bat woman” più famosa del mondo, Shi Zhengli, virologa di fama internazionale e soprattutto direttrice del famigerato laboratorio di virologia di Wuhan, in Cina, ha parlato con il New York Times. Ha detto di non avere “niente da temere”: più volte, sui media internazionali ma anche direttamente dalla Casa Bianca di Trump, il suo laboratorio che studia i pipistrelli è stato l’oggetto di speculazioni sull’origine della pandemia. Scrive il New York Times che “in tempi meno polarizzati, la dottoressa Shi era un simbolo del progresso scientifico della Cina, in prima linea nella ricerca sui virus emergenti. Ha guidato diverse spedizioni nelle grotte per raccogliere campioni di pipistrelli e guano, per imparare come i virus passano dagli animali agli uomini. Nel 2019, è stata tra i 109 scienziati eletti all’American Academy of Microbiology per i suoi contributi nel campo”. Al di là delle responsabilità a cui forse prima o poi arriveremo investigando sull’origine di questa pandemia, le caverne, come quegli oscuri laboratori dove si trattano i virus più pericolosi, restano nel nostro immaginario i luoghi del terrore, bui e incomprensibili per chi non abbia dimestichezza con la virologia. Eppure, senza quei luoghi, non avremmo gli strumenti per capire i virus che generano le malattie, e poi le pandemie. Da animali di terrore, così i pipistrelli diventano salvifici.


Così fanno anche i topi: sono infestanti, ma sono anche le cavie su cui l’uomo sperimenta i suoi vaccini. Ciò che per noi rappresenta la fine del mondo è allo stesso tempo la risorsa della nostra conoscenza, anche se, come per buona parte delle nostre paure, tendiamo a rimuovere, a ignorare, o a pontificare in piedi su una sedia.

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.