In Perù vince Castillo, ma la “marea rosa” non è come sembra

Maurizio Stefanini

Il neo-presidente peruviano è l'ultimo rappresentante in ordine di tempo di un'estrema sinistra che, altrove in Sud America, esprime una classe dirigente spesso autoritaria e negazionista sugli effetti Covid-19 

“Il popolo ha parlato”, ha detto Pedro Castillo nel proclamarsi presidente in base a un vantaggio ormai incolmabile. La sinistra va al potere in Perù, in un quadro di successi della sinistra a livello regionale scandito da: il ritorno del partito di Evo Morales al potere in Bolivia alle elezioni dello scorso 18 ottobre; il successo di varie liste di sinistra al voto per la Costituente cilena lo scorso 15-16 maggio; l’ondata di protesta in Colombia pur dopo il ritiro della riforma tributaria del presidente Iván Duque, e che pompa nei sondaggi il leader della sinistra, Gustavo Petro; il ritorno in Brasile dell’ex presidente Lula, che nei sondaggi appare per ora vincitore contro il Bolsonaro. C’è chi riparla della  “marea rosa” che caratterizzò la regione nella prima decade del millennio, pur tra la variante moderata di Lula e quella radicale di Chávez.


Castillo è però “estrema sinistra” sui generis. Favorevole a nazionalizzazioni e tasse, vuole una nuova Costituzione diversa da quella “neoliberale” di Fujimori e si proclama amico del venezuelano Maduro. Però ammira Singapore; vuole la pena di morte; ha promesso che caccerà gli immigrati “entro 72 ore”; è contrario ad aborto, matrimonio egualitario, libero consumo della marijuana. E il suo è un voto di protesta, nel paese che ha registrato il più alto tasso di vittime per Covid del mondo. 


L’America latina è la regione più colpita dalla pandemia, ma dove la sinistra è al governo, è contro di essa che si registra la protesta. Lo stesso giorno del voto in Perù c’erano le elezioni di metà mandato in Messico. Andrès Manuel López Obrador, presidente con toni negazionisti sul Covid e di sinistra, voleva i due terzi del Congresso per una possibile riforma costituzionale da molti tacciata di autoritarismo. Invece il suo partito ha perso 49 seggi e  ha subìto varie sconfitte locali, anche a Città del Messico. In Argentina, il 14 novembre prossimo sono in agenda elezioni di metà mandato: i sondaggi annunciano un disastro per la coalizione di Alberto Fernández e Cristina Kirchner, che verrebbe sconfitta dai liberali. Un quadro sui generis era quello dell’Ecuador, dove nel 2017 Lenín Moreno era stato eletto come successore del chavista Rafael Correa, ma aveva poi rotto con lui. Comunque il leader del centrodestra Guillermo Lasso appariva alternativo all’uno e all’altro, e lo scorso 11 aprile si è imposto lui al candidato correista.    


In contemporanea al voto di protesta di sinistra in Perù e al voto di protesta di destra in Messico una terza notizia dalla regione riguarda il Nicaragua, dove sono finiti in galera quattro possibili candidati all’opposizione alle presidenziali del prossimo 7 novembre. Pure lui negazionista di sinistra, Daniel Ortega da anni continua in questa involuzione autoritaria. Come Maduro, che in Venezuela sta dando il vaccino solo ai fedeli del governo. Ma il Covid sta portando anche a una ripresa repressiva a Cuba. 


Di fronte alla protesta, dunque, c’è una evidente maggior tentazione dei regimi di sinistra di arroccarsi in chiave autoritaria: l’influenza del chavismo non è passata. In Colombia almeno 61 manifestanti e tre poliziotti uccisi durante le proteste segnalano un problema. E poi c’è il caso El Salvador, dove nel 2019 è diventato presidente l’oriundo palestinese Nayib Bukele: un outsider che si è affermato contro la destra e la sinistra assieme, ed è riuscito lo scorso 28 febbraio a compiere l’impresa di vincere politiche e amministrative pur stando al governo. A quel punto ne ha approfittato per una manovra sul potere giudiziario che a sua volta prefigura una blindatura autoritaria a partire dalla emergenza pandemica. 

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