Si conta ancora in Perù

Maurizio Stefanini

Potrebbero essere i voti all'estero a stabilire chi, tra Pedro Castillo e Keiko Fujimori, sarà il futuro presidente del paese. Un testa a testa lunghissimo tra la tensione che aumenta tra i due candidati

Il risultato del ballottaggio presidenziale in Perù è sospeso tra la Selva e le ambasciate. Col 96,65 per cento dei seggi scrutinati, è in testa il candidato della estrema sinistra José Pedro Castillo Terrones, con il 50,269 per cento dei voti. 8.581.886 contro 8.489.971 della candidata di estrema destra Keiko Sofía Fujimori Higuchi. Ma dei voti all’estero sono stati scrutinati solo il 37,907 per cento, e lì è Keiko invece in testa, col 72,128 per cento. 64.875 voti contro 35.125. Davvero verrà dai peruviani emigrati abbastanza da permettere un recupero, come sostengono alcuni analisti? In effetti il trend per Keiko è in aumento, man mano che i voti dall’estero arrivano. Se la proporzione resta questa, Keiko potrebbe recuperare 78-79.000 voti, più o meno. Resterebbe sotto di 12-13.000. Se invece la tendenza all’aumento della sua proporzione all’estero si conferma, ce la potrebbe fare. Potrebbe essere veramente questione di qualche centinaio di voti. 

 

In effetti, i primi dati resi noti davano Keiko in testa. Col 42,3 per cento dei voti scrutinati, stava al 52,9. Che era comunque un exploit, tenendo conto che al primo turno stava al 13,41 contro il 18,92, e che fin quasi alla fine i sondaggi la avevano data come staccata. È però poi cresciuto l’appoggio nei suoi confronti di ambienti e persone preoccupati  per una possibile “chavizzazione” del paese, e lo stesso Mario Vargas Llosa che alle due ultime consultazioni aveva promosso un voto al ballottaggio contro di lei stavolta la ha invece appoggiata, promuovendo una pubblica cerimonia in cui lei ha giurato di rispettare la democrazia, e garantendo che aveva inserito nella sua “squadra” elementi in passato avversi al regime del padre. E anche un exit poll della Ipsos la aveva data vincitrice, col 50,3. 

 

 

Però la stessa Ipsos in un “conteggio rapido” di qualche ora dopo aveva previsto una vittoria di Castillo col 50,2. Tutti gli analisti hanno spiegato che i primi voti ad arrivare erano quelli di Lima e delle città, dove Keilo era in testa. Ma poi sarebbero arrivati quelli della Selva e della Sierra, dove ci sono aree in cui Castillo è arrivato all’80 per cento. Il Perù profondo e povero, da sempre emarginato, che in Castillo vede non tanto il primo presidente di estrazione “alternativa”, perché anche il giapponese Fujimori e l’indio Toledo lo erano; ma sicuramente il primo presidente che non è stato parte di qualche élite della capitale. Dopo di che sarebbero venuti poi i voti dell’estero, e di elettori che hanno più presente l’immagine nefasta di quel “modello venezuelano” cui Castillo è considerato contiguo.  

 

Castillo è passato in testa quando si è arrivati al 95,73 per cento degli atti processati. Poi il suo vantaggio si è via via allargato, fino a salire verso quota 100.000. Ma a questo punto l’attesa spasmodica è per il voto estero, che secondo alcuni osservatori portrebbe tardare anche di una quindicina di giorni. Ovviamente, il clima è teso. “I risultati che abbiamo finora sono un segnale di allarme, una chiara e ferma chiamata alla riconciliazione e alla unità nazionale”, è il messaggio con cui ha provato a calmare le acque il presidente a interim Francisco Sagasti. Dopo aver invitato alla calma quando era in testa, passata in svantaggio Keiko ha iniziato a denunciare brogli “sistematici” ai suoi danni.  “Il mio partito i brogli non li fa, li subisce”, è il tono della risposta di Castillo, che per suo conto aveva subito invitato i propri simpatizzanti a scendere in piazza per difendere il voto fin dopo che erano stati resi noti i primi risultati. I social hanno reso virali video e denunce sull’arresto di due sostenitori di Castillo sorpresi con rispettivamente 200 e 60 schede già votate. Il partito di Castillo ha parlato di “falso”.  Nel frattempo, la Borsa di Lima è caduta del 7,7 per cento, e il sol del 2 per cento.

 

 

Castillo e Keiko sono estrema sinistra e estrema destra piuttosto sui generis, va ricordato. Maestro di scuola rurale e sindacalista diventato famoso quattro anni fa per aver guidato uno sciopero di maestri Castillo vuole nazionalizzare tutto il nazionalizzabile e tassare il resto, si dichiara amico del regime venezuelano e promette che se diventerà presidente farà eleggere una Costituente sullo stile appunto di quella con cui Chávez impose la sua Costituzione, anche se  il suo principale consulente economico spergiura: “non sarà un nuovo Chávez”. “Non più poveri in un paese ricco”, è un suo slogan. Però è omofobo, è contro l’aborto, vuole la pena di morte, gli piace il modello di Singapore, ed è durissimo contro l’immigrazione. La chiave di una quadratura tra posizioni che in Europa potrebbero essere considerate di destra e posizioni di sinistra è probabilmente nell’irritazione contro il milione di esuli venezuelani che sono arrivati. “Che il presidente Maduro se li riprenda” è il suo auspicio: con spirito abbastanza simile a quello che ha reso filo-Assad e filo-Putin la destra sovranista europea, dopo che è arrivata la fiumana dei richiedenti asilo dalla Siria. Quanto a Keiko, adesso ha fatto propaganda sul tema “libertà o comunismo”. Ma suo padre nel 1990 fu eletto col voto compatto della sinistra, che voleva bloccare il “neo-liberale” Vargas Llosa.   

 

Sarebbe la terza volta che Keiko perde un ballottaggio: la volta scorsa, per soli 40.000 voti. Se non è eletta quasi sicuramente affronterà un giudizio per riciclaggio sul caso Odebrecht in cui rischia 30 anni, e per cui già è stata 16 mesi in carcere preventivo. Peraltro anche il segretario del partito di Castillo  Vadimir Cerrón, autore di un “ideario leninista” e leader del gruppo al Congresso, non ha potuto candidarsi alla vicepresidenza per via di una condanna per corruzione passata in giudicato. 

 

Chi è eletto si insedierà il 28 luglio, in un paese  che con 185.000 morti su 33 milioni di abitanti ha avuto il più alto tasso di mortalità per Covid al mondo, e che pure per la paralisi dell’economia dovuta alla pandemia il pil è caduto dell’11,2 per cento.  È pure il paese dove tutti i presidenti eletti dal popolo dal 1985 in poi sono finiti in galera: compreso il padre di Keiko, e escluso Alan García solo perché si è suicidato prima che lo arrestassero. Con Castillo presidente ci si aspetta non solo una fuga di capitali, ma un ostruzionismo serrato di un Congresso in cui, secondo l'efficace espressione di un analista, c’è non tanto una maggioranza di suoi oppositori, ma di “suoi odiatori”, che priverebbero subito a metterlo sotto impeachment. Cosa che appunto aumenterebbe la spinta di Castillo a convocare una Costituente per mettere il Congresso in mora, appunto stile Chávez. Salvo che non avrebbe l’appoggio delle Forze Armate per imporlo. Se invece vince Keiko si dà per scontato che Castillo scatenerà la piazza contro di lei. 

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