Una comica molesta

Il cortocircuito del maschilismo alla coreana ha a che fare con un Ken di plastica

Giulia Pompili

Dalle spycam alle molestie. Ma poi è una donna a finire indagata in Corea del sud

Se una comica gioca con le parti intime di un Ken di plastica durante un suo show su YouTube è molestia sessuale? Un cortocircuito simile poteva avvenire soltanto in Corea del sud, una società estremamente patriarcale dove le regole occidentali del femminismo sono invece usate al contrario, contro le donne e contro chiunque le difenda, perché ci manca solo che adesso questi progressisti decidano di stravolgere i nostri equilibri. La trentacinquenne sudcoreana Park Na-rae, nota comica da tempo reclutata da una delle agenzie di intrattenimento più famose in Corea del sud, la Jdb Entertainment, da circa un mese  è indagata dalla procura per molestie sessuali contro il maschio di una Barbie, usato come oggetto di scena durante uno dei suoi video online. Non è bastato che si scusasse, che dicesse anche frasi ben più oscene: “Come comica e celebrità, è mia responsabilità e obbligo controllare la produzione, il personaggio e gli oggetti che uso”.


“Ho deluso molte persone. Lavorerò per essere più attento alle mie parole e alle mie azioni”, ha detto Park. La società di produzione che aveva puntato su “Hey Narae”, il suo programma su YouTube, all’inizio ha cancellato soltanto l’episodio con l’atto incriminato, poi ha cancellato tutta la serie. 


Alle donne non è concesso parlare di sesso, non è concesso mostrarsi disinibite, e alle idol, le icone del K-pop, il pop coreano, viene insegnato a non dire parolacce e a sorridere sempre, nella costruzione di un ideale di desiderabilità tutto maschile. Il New York Times, che ieri ha dedicato alla faccenda di  Park Na-rae un lungo approfondimento, ha cercato di parlare sia con gli inquirenti sia con la società che rappresenta la Park, senza ricevere risposta. Ma è molto difficile che le indagini contro di lei porteranno a un rinvio a giudizio, semplicemente perché fingendo di masturbare Ken non ha compiuto alcun reato.


Il problema della parità di genere in Corea del sud – paese che probabilmente dovrebbero visitare tutte le donne che dalle nostre parti credono sia fondamentale introdurre gli asterischi per essere più inclusivi  – è uno dei primi punti che ha toccato quattro anni fa l’Amministrazione del democratico Moon Jae-in. E’ anche grazie al suo arrivo al governo che sono iniziate delle indagini – vere, e non cosmetiche – contro il sistematico accantonamento delle indagini per molestie sessuali. Dal 2017 in poi è iniziata una campagna contro il fenomeno delle spycam, le microcamere che venivano istallate regolarmente in quasi tutti i bagni pubblici femminili sudcoreani, dentro ai camerini dei negozi, perfino negli ospedali, le cui immagini poi venivano condivise nel dark web. Nel 2018 quasi un milione di donne sono scese in piazza in una serie di manifestazioni per chiedere al governo di criminalizzare la condivisione di immagini intime, e il ministero della Parità di genere di Seul e della famiglia ha iniziato dall’alfabetizzazione, e cioè dalla sensibilizzazione sui diritti delle donne, per cambiare l’idea pervasiva della società coreana che la donna e il suo corpo siano subordinati alla voluttà maschile. I maschi non hanno gradito. Il gradimento dell’Amministrazione Moon è in caduta libera, e secondo i vari analisti c’entra anche questo tentativo di cambiare il trattamento delle donne sudcoreane. I ragazzi intorno ai vent’anni si sentono “vittime del sistema” perché sono costretti a perdere un anno di carriera per il servizio militare, che in Corea del sud è obbligatorio per tutti i maschi. I gruppi conservatori dicono: se volete essere davvero per la parità di genere allora estendete la leva obbligatoria anche alle donne. 


Programmi come quelli di Park Na-rae, che mostrano una donna emancipata che scherza sulla sessualità, aizza gli squadroni dei social network da cui dipendono i programmi di intrattenimento in Corea del sud, dove sotto i quarant’anni nessuno vede più la tv ma tutto passa attraverso internet. Una società maschilista che ha trasformato i suoi giovani nelle vittime perfette. Ma solo quelli maschi.
 

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.