Angela Merkel (foto Ap)

La fine del modello tedesco, sempre annunciata e sempre smentita

Marco Cecchini

La rappresentazione della situazione a Berlino offerta dai media nazionali e internazionali appare all’insegna del pessimismo: ma non staremo esagerando?

Prima un allarmante articolo di Die Zeit che denuncia il crollo della “fiducia dei tedeschi nello stato” a causa della cattiva gestione della pandemia e l’incertezza politica; poi un’inchiesta del Financial Times sulla Germania “zimbello d’Europa”, che sfata il mito dell’efficienza. E questo senza contare il diluvio di preoccupati commenti, notizie e giudizi sulla fine “ingloriosa” dell’èra Merkel. La rappresentazione della situazione a Berlino offerta dai media nazionali e internazionali appare all’insegna del pessimismo: secondo la rivista Limes oggi è addirittura in discussione il modello tedesco di assetto politico, economico e sociale. Certo il lungo lockdown, lo scandalo delle mascherine e la doppia sconfitta della Cdu nelle elezioni in  Renania Palatinato e Baden Wurttenberg a sei mesi dalle elezioni generali di settembre pesano. Ma non staremo esagerando? 

L’approccio dei mezzi d’informazione all’analisi delle fortune politico economiche tedesche è improntato da sempre a una sorta di “bipolarismo emozionale”, secondo il germanista Angelo Bolaffi: il paese una volta è descritto in ginocchio e la volta dopo è diventato una superstar del firmamento mondiale. Cominciò l’Economist, oltre vent’anni fa nel 1999, allora non a torto, a parlare di Germania come “new sick man of the euro”. Dopo due riforme strutturali (mercato del lavoro e pensioni) e una grave crisi finanziaria (2008-2009) brillantemente superata, l’American Economic Association nel 2014 salutava la Germania come “economic superstar”. Alla vigilia della pandemia nell’autunno del 2019 per il Credit Suisse, l’agenzia Bloomberg e vari istituti di ricerca Berlino era tornata ad essere “the new sick man of Europe”. Ma alla fine della prima ondata pandemica lo scorso settembre il Financial Times titolava: “What Germany teaches the world in a crisis?”. Oggi per il quotidiano londinese lo “zimbello” ha solo da imparare.  Il bipolarismo emozionale sconta certamente antiche attitudini. Da una parte la stampa nazionale, di proprietà di editori puri da sempre privi di timori  verso le istituzioni, riflette fedelmente gli umori di un’opinione pubblica oggi molto irritata. Dall’altra i media inglesi sono lo specchio di un conflitto culturale secolare tra due paesi che sono depositari di due forme di liberalismo diversamente regolato e che non si sono mai capiti. Certamente parlare di crisi del modello tedesco e di fine ingloriosa dell’èra Merkel appare liquidatorio, certamente affrettato. E’ presto anche per fare pronostici a tinte scure sul dopo Merkel. Secondo il direttore del Ceps, il think tank indipendente di ricerca europeo, Daniel Gros, “il modello tedesco, basato sulla media impresa manifatturiera, una solida amministrazione, prudenza finanziaria e un’economia export led non è affatto in crisi come dimostrano i più recenti dati economici. Dove è emersa una difficoltà oggettiva, ma temporanea, è piuttosto nell’assetto federale grazie al quale sono i Länder a detenere i veri poteri di implementazione delle regole sul territorio. Da fuori non si capisce che in tutti questi anni la Cancelliera ha forse governato più sull’Europa che sul proprio paese”. 

Le difficoltà tedesche nella gestione della seconda ondata pandemica dopo i successi nella prima sarebbero dunque dovute soprattutto all’eccesso di potere alla periferia del sistema. A sua volta queste difficoltà spiegherebbero il crollo della Cdu nelle recenti elezioni regionali. I pessimisti in ogni caso vedono l’uscita di scena di Angela Merkel dopo 16 anni al comando come un salto nel buio. Secondo Gros in realtà “ci sarà continuità perché i partiti hanno posizioni simili sulle principali questioni”. Del resto la fine di un lungo cancellierato presenta sempre delle incognite che in genere si risolvono positivamente. Oggi si lamenta che il neopresidente della Cdu, Armin Laschet, è poco carismatico e troppo titubante per essere un buon candidato alla Cancelleria. Ma non si può dire che Angela Merkel fosse molto conosciuta quando prese il timone della Cdu e poi del paese dopo gli anni di Helmut Khol.

Per Bolaffi tuttavia “questa volta è diverso”. Diverso “perché allora si sapeva con quale coalizione, quella rosso-verde (socialisti e verdi), si doveva competere, oggi non si sa quale coalizione si formerebbe se la Cdu e la Csu perdessero le elezioni e la cancelleria”.  In effetti la vera incognita è che la caduta dei cristiano democratici nei sondaggi e la stabilizzazione della Spd su bassi livelli potrebbero proiettare al Bundeskanzlerhamt un rappresentante dei Verdi, partito in forte crescita, facendo della Germania il laboratorio politico dell’Europa. Per capire cosa accade a Berlino, spiega Bolaffi “occorre tenere presente che i problemi della Germania oggi non sono quelli del passato. Sono la transizione verde, la digitalizzazione, l’innovazione. Il paese guarda avanti”. E comunque, chiunque vincerà le prossime elezioni,  la Germania ha dimostrato di possedere diversamente da altri paesi gli anticorpi contro la malattia del populismo e del sovranismo. Non è un caso se il 4 marzo il Bundestag ha deciso di porre sotto sorveglianza il partito di estrema destra della AfD classificato dai servizi segreti come un rischio per la democrazia.

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