Ma quale noia

Biden ha fatto la rivoluzione in 51 giorni

Il pacchetto di stimoli introdotto dall'Amministrazione americana per combattere la pandemia cambia del tutto il ruolo dello stato nella vita dei cittadini. E pur essendo una legge molto progressista non ha fatto scappare i moderati

Paola Peduzzi

Il paese più lacerato di sempre, piegato da un dibattito pubblico rabbioso, ha adottato un pacchetto di stimoli  (1.900 miliardi di dollari) che è molto di più di una risposta alla pandemia: è una nuova visione del ruolo dello stato   che va oltre la storica dicotomia tra small e big government. Questo è il “Transfer State”, un’enorme redistribuzione di denari che si fonda sull’idea che poi i cittadini, di quei denari, ne faranno buon uso

Toni pacati e noia hanno consegnato all’America una  rivoluzione, in soltanto 51 giorni dall’insediamento del presidente Joe Biden. Il paese più lacerato di sempre, piegato da un dibattito pubblico rabbioso, ha adottato un pacchetto di stimoli  (1.900 miliardi di dollari) che è molto di più di una risposta alla pandemia: è una nuova visione del ruolo dello stato   che va oltre la storica dicotomia tra small e big government. Questo è il “Transfer State”, un’enorme redistribuzione di denari che si fonda sull’idea che poi i cittadini, di quei denari, ne faranno buon uso.

Michael Hendrix, del Manhattan Institute, ha scritto che l’America aveva speso 4.800 miliardi di dollari (attualizzati) durante la Seconda guerra mondiale: nell’ultimo anno, ne ha spesi 5.500 contro la pandemia. Ma l’emergenza non spiega tutto lo sforzo, per questo la definizione di “misure anti pandemiche” sta strettissima all’American Rescue Plan Act appena firmato da Biden. Un esempio: i bambini, o meglio sarebbe dire l’investimento sul nostro futuro. Le agevolazioni fiscali per le famiglie con figli e il Child Tax Credit riguardano, secondo l’Institute on Taxation and Economic Policy, 83 milioni di minorenni, e questo sostegno verrà pagato su base mensile ai genitori (anche questa è una rivoluzione: non arriva tutto insieme, arriva come uno stipendio) fino almeno alla fine dell’anno, fino a 300 dollari al mese a bambino. Gli economisti liberisti dicono che, come tutti i sussidi, questo costituisca un “moral hazard”: si smetterà (soprattutto le donne) di cercare lavoro per avere il sussidio. Qui sta una delle grandi scommesse del “Transfer State”: trasferiamo soldi presumendo che saranno utilizzati nel modo giusto. Michael Gerson, ex consigliere di Bush jr, ha scritto che questa riforma è “un sogno dei conservatori che diventa realtà” – intende i conservatori tendenza compassionevole, com’erano i bushiani – facciamo sì che diventi permanente.

 

David Brooks, opinionista conservatore del New York Times, dice che la forza di questa legge è paragonabile alla rivoluzione reaganiana, pur se di segno opposto: “Non è che lo stato sta andando in un’altra direzione, è che il paradigma del ruolo dello stato nella vita dell’America si sta trasformando”. Nel 1981, il reaganismo rispondeva alla stagflazione e insisteva sulla premessa che lavorando duro avresti ottenuto la tua sicurezza economica. Biden oggi risponde al fatto che il clima di insicurezza e di precarietà è elevato, ed è stato accelerato e acutizzato dalla pandemia. “Biden non ha creato questo movimento tettonico, Biden lo sta gestendo”, scrive Brooks.

Naturalmente i timori sono grandi, non soltanto tra gli economisti liberisti: i progressisti discutono degli effetti sui comportamenti e sui mercati di questo “governare in deficit”, non soltanto per quel che riguarda le conseguenze macroeconomiche come l’inflazione ma anche quelle che scattano sempre quando arriva lo stato assistenzialista. Ma intanto oggi l’opposizione a questo “Transfer State” non c’è: oltre il 60 per cento degli americani è a favore. I repubblicani al Congresso hanno in parte votato contro, ma non ne hanno fatto una battaglia. La misura economica più progressista di sempre non ha fatto scappare i moderati. “Impressive”, scrive Brooks. E anche la dimostrazione che Biden non è né “slow”, come diceva Trump, né un semplice portavoce dell’eredità clintonian-obamiana, come dicevano tutti gli altri.
 

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  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi