Oggi la cultura americana sembra oscillare tra due burroni: da una parte il minestrone insipido della “correttezza politica” dei liberal di New York; dall’altra l’esaltazione tronfia, astiosa di una presunta “grandezza” che si appella soprattutto alla cosiddetta America profonda
Circa quarant’anni fa, per sottrarlo a una discussione che stava prendendo una brutta piega, posi a un collega ebreo-americano una di quelle domande che, pur raggiungendo lo scopo che si prefiggono, non possono certo essere considerate particolarmente intelligenti: “Che effetto fa vivere in un paese senza tradizione?”. Ne ottenni una risposta immediata e fulminante: “Si vive molto meglio che in un paese senza futuro”. A questo episodio ripensavo nei giorni scorsi, mentre seguivo lo spoglio delle elezioni americane. Di certo nelle battute col collega americano era ben presente uno stereotipo allora largamente diffuso: quello di un’Europa con un grande passato, ma decisamente in affanno, e di un’America che sentiva invece davanti a sé un grande futuro. Ma oggi questo stereotipo non vale più. Anche l’America è gravemente malata, malata di una malattia che colpisce, non tanto la sua potenza economico-militare, quanto la sua cultura in generale e la sua cultura politica in particolare.
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