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il Foglio

Ben Smith del Nyt ci dice che i giornalisti non sono i nemici del popolo, ma nemmeno degli amici. La trappola di Trump e l’inferno nelle redazioni quando Slack incontra Twitter

 

Chiede, serio: “Che cosa succede se Slack e Twitter si incontrano?”. Pausa. Pensiamoci un attimo: viene in mente soltanto un’immagine, l’inferno. A porre la questione è Ben Smith, editorialista della rubrica dedicata ai media del New York Times, ex direttore di BuzzFeed ed ex giornalista di Politico, che risponde a metà delle domande con altrettante domande, e lo fa da casa, in una mattinata caotica di lavoro, mentre beve compulsivamente una bibita in lattina. Quindi, Slack più Twitter uguale inferno. Con l’inizio della pandemia, racconta Smith, “le redazioni hanno chiuso i loro uffici e si sono trasferite tutte sulle piattaforme di messaggistica istantanea come Slack, appunto. E lì i giornalisti scambiano opinioni, scontri e ironie, proprio come di solito succede su Twitter”. Ma in un periodo storico che in America include la peggiore pandemia del secolo e mesi di proteste razziali che non accennano a terminare, la comunicazione delle redazioni ridotta a raffiche di messaggi online non fa altro che acuire le divisioni interne. Infatti, sono esplose”. Ne parla in riferimento alla vicenda di Bari Weiss, la collega del New York Times che a luglio ha dato le dimissioni dal giornale e ha pubblicato una lettera sul suo sito in cui ha raccontato il clima di terrore che si vive all’interno degli uffici del quotidiano. Terrore dato dalle pressioni dei social media e in particolare da Twitter, che lei ha definito “il vero direttore del New York Times”. Secondo Weiss, la sua colpa era quella di non aderire all’idea dominante del giornale – ossia non essere liberal – motivo per cui era stata assunta, e ha scritto: “Sono stata oggetto di bullismo da parte dei colleghi che non la pensano come me. Mi hanno chiamata nazista e razzista. Sui canali Slack dell’azienda sono costantemente attaccata anche davanti ai capi. Alcuni colleghi insistono sul fatto che devo essere allontanata se questo giornale vuole diventare veramente inclusivo”. “Io sono un outsider”, dice Smith mettendo le mani avanti, “non conosco esattamente tutte le dinamiche della redazione, ma la comunicazione da remoto non sempre aiuta. C’è anche da dire che Weiss è una giornalista incline alla polemica e alla provocazione”, basta andare sul suo account Twitter per averne conferma. Ma la vicenda Weiss non è isolata nel mondo dell’informazione: negli ultimi mesi, altri giornalisti ne sono andati o sono stati estromessi dalla redazione per motivi simili – uno tra tutti: Andrew Sullivan ha lasciato il New York Magazine, fuoriuscita che ha affilato il dibattito sulla cancel culture. Se fa un po’ fatica a parlare della storia personale di Weiss, Smith è un tripudio di parole quando si mette a parlare dell’ultimo suo articolo dedicato ai media, la sua grande passione. Il titolo recita: “I giornalisti non sono i nemici del popolo. Ma non siamo nemmeno i vostri amici”. “Già”, continua lui, “ultimamente, i giornali tendono a confondersi troppo nella battaglia politica. La cosa migliore che un operatore dell’informazione può fare è smetterla di scrivere per compiacere il suo pubblico in una ricerca sfrenata di consenso. Dobbiamo indagare, raccontare le cose, punto”.

 

  

Smith scrive che Donald Trump riconosce il desiderio dei media di avere una parte nella storia, “e sta cercando di sfruttarlo fondendo e confondendo il giornalismo politico teatrale con il lavoro più approfondito di un altro tipo di giornalismo d’inchiesta. Il presidente sarebbe felice di correre a novembre contro Nbc-New York Times-Cnn-Atlantic quasi quanto contro Joe Biden”. L’esempio perfetto è quello dello scorsa settimana. Un giornalista della Cnn ha fatto a Donald Trump una domanda sulla violenza usata durante le proteste di Black Lives Matter da parte di alcuni suoi sostenitori, Trump gli ha risposto: “I tuoi sostenitori hanno sparato a un uomo a Portland, in Oregon", come a dire che anche lui e il suo giornale erano responsabili dell’omicidio di Aaron Danielson, il sostenitore dei Patriot Prayer ucciso il 29 agosto scorso.  Quando i piani si confondono e ci si divide in tifoserie, si rischia di perdere di vista lo spirito del lavoro giornalistico che è quello di capire i fatti. Dividere, separare e creare un mondo polarizzato è la passione di Trump, il suo gioco preferito: “In un clima complicato come quello delle prossime elezioni, è importante ricordarsi di non cadere in questi meccanismi, e se noi reporter vogliamo fare un buon lavoro, nei due mesi che abbiamo davanti dobbiamo stare il più possibile fuori dalle urne”, dice Smith. Nel suo editoriale scrive anche delle parole di Lewis Raven Wallace, un giovane cronista e autore di “The View From Somewhere”, un libro sul mito dell’obiettività del giornalismo. Wallace dice che per evitare di cadere in certe trappole, i giornalisti americani dovrebbero uscire completamente dalle sale della Casa Bianca, abbandonare questa abitudine e guardare le cose da fuori. “Se sono seriamente intenzionati a salvaguardare la democrazia, i giornali hanno bisogno di costruire insieme un potere collettivo e decidere di non entrare più in quelle stanze”, ha detto il Wallace in un’intervista. “Ma nel mondo a scopo di lucro del business dei media”, sostiene Smith, “gli incentivi delle vendite e degli abbonamenti e la costruzione del marchio personale spingono i giornalisti nella direzione opposta. I quotidiani, i magazine hanno avuto successo perché hanno detto al pubblico quello che il pubblico vuole sentirsi dire, facendo sentire i lettori parte della loro stessa squadra”.

 

   

Smith dice che secondo lui ci sono tanti giornalisti bravi e capaci. “L’intervistatore ideale non è quello che ti rassicura in un programma televisivo della mattina, è invece quello che ti fa sputare il caffè”. Come ha fatto Jonathan Swan, il reporter australiano di Axios, che il 3 agosto ha intervistato Donald Trump senza troppo riguardo, in un’intervista di mezz’ora su HBO diventata virale in tutto il mondo. “Forse la migliore intervista del mandato. Potresti non volere Swan nella tua cucina al mattino, ma vuoi che faccia il suo lavoro”. Poi Smith continua dicendo che anche il lettore deve abbandonare l’idea dell’eroe. “Se sei un lettore, puoi goderti il ​​giornalismo, apprezzare il suo ruolo in una società libera e cercare di resistere all’idea o al bisogno di eroi buoni che sconfiggeranno i malfattori salvando la nostra democrazia. Non vogliamo eroi, ma istituzioni forti e il riconoscimento che le persone che ci lavorano sono umane, senza poteri magici”. Secondo Smith, è arrivato il momento di concentrarsi sui fatti. Per esempio, le redazioni devono smetterla di focalizzare l’attenzione solo sugli insulti razzisti di Trump, o sulle sue sparate su Twitter, perché nel mentre avvengono cose ben più gravi: “Dobbiamo approfondire le vere azioni pericolose e gli attacchi che stanno subendo le istituzioni democratiche. Tipo quelli fatti negli ultimi mesi alla possibilità di voto, e le mosse del dipartimento della Giustizia contro i “nemici politici””, dice. Poi, ridendo, aggiunge che forse noi italiani potremmo aiutare i media americani a capire come raccontare al meglio un personaggio così controverso come Donald Trump. “Voi lo avete avuto prima di noi, solo che si chiama Silvio Berlusconi”. Gli ultimi mesi sono stati tra i più complicati della storia recente americana e sono coincisi con l’arrivo di Smith nella squadra del New York Times, non un tempo facile per il giornale. “Ma sono felice di essere tornato a fare il mio lavoro: il reporter. L’esperienza a Buzzfeed è stata fondamentale, mi piace anche gestire le persone, ma quanto è bello raccontare quello che succede?”. E prima di tornare alle sue decine di email in attesa di una risposta, ci tiene a dire: “Hai letto Janet Malcolm? Ecco, secondo me ogni giornalista dovrebbe avere lei sul comodino”. E ora, tutti a studiare.