Emmanuel Macron (foto LaPresse)

I mille volti dell'europeismo francese

Giuliano Ferrara

Sì: il partito di Macron ha perso i ballottaggi. Ma la vittoria dei Verdi e il mancato ritorno di un bipolarismo destra-sinistra più classico offrono qualche speranza sul futuro. I guai ci sono ma l’ambizione è quella giusta e avversari solidi non si vedono

Macron ha perso il secondo turno delle elezioni municipali, con il 60 per cento di astensionismo dovuto in parte alla crisi sanitaria e sociale e in parte alla disaffezione politica, il dégagisme, il “tutti a casa”, che ha colpito in particolare La Rèpublique En Marche (Lrem), il partito del presidente che ha appena tre anni di vita come terza forza né di destra né di sinistra o di destra e di sinistra. Non sembra ci sia stato un ritorno alla bipolarizzazione che l’elezione di Macron aveva infranto: gli eredi del gollismo hanno perso Bordeaux, che tenevano in pugno da 73 anni, e vanno bene solo nella Francia rurale delle piccole città, mentre i socialisti vincono con la Hidalgo nella sola Parigi, ma con una candidata verde-civica come impostazione, più che socialista, e per effetto anche di un pornovideo assassino che ha liquidato in piena battaglia l’unico competitore, il macroniano Griveaux.

 

Il partito di Macron ha perduto la posta in gioco, non si è radicato, ha scontato i dati stagnanti di popolarità del presidente, ma chi ha avuto vero successo sono i Verdi di Eelv (Europe Ecologie Les Verts), in molti casi coalizzati con la gauche, leader e trascinatori di consenso nelle coalizioni. Travestito per superare l’anatema repubblicano, il partito di Marine Le Pen è andato bene in un confronto con il candidato della destra gollista a Perpignano, vinto dall’ex compagno della capa del Front e poi del Rassemblement national, un segno di relativa novità ma non una svolta solida e politicamente spendibile su scala nazionale, politica e presidenziale.

 

Macron e il macronismo, da quando trionfarono nel 2017 e conquistarono Eliseo e maggioranza legislativa all’Assemblée nationale, sono vissuti tra le crisi. Il successo del maggio 2017 fu aiutato dalle idee riformiste nuove, dal profilo di rottura che Macron seppe incarnare e che si incontrò con lo spirito dégagiste, dal blocco sociale forte che investì per la prima volta su una prospettiva di globalizzazione liberale e di mercato in un paese per tradizione iperstatalista, e dal colpo di fortuna dello scandalo Penelopegate, oggi in parte confermato da una condanna pesante per l’uso familista spregiudicato dei fondi pubblici da parte dei Fillon, François e Penelope, che eliminò il campione della destra gollista postsarkozista dalla gara del secondo turno presidenziale. Eppure il progetto di un partito della nazione e del cambiamento, equidistante dalle tradizioni ideologiche di destra e di sinistra e capace di prendere qualcosa dell’una e dell’altra, ha dovuto farsi largo con fatica, dopo la squillante vittoria e la celebrazione notturna sulle note di Beethoven nel piazzale del Louvre.

 

Il riformismo liberale è diventato, sotto i colpi d’incontro della rivolta dei gilet gialli in particolare, la “presidenza dei ricchi”. Alcune riforme di struttura sono passate (lavoro, ferrovie, in parte l’istruzione pubblica), altre decisive no (pensioni), e sempre in un clima di crescente ostilità verso le innovazioni per la quale il macronismo ha pagato prezzi ingenti. Un europeismo attivo e trasformativo è tardato all’appello, per la situazione precaria del potere merkeliano in Germania e per l’assalto neopopulista alimentato anche dalla Brexit e dalla presidenza Trump, e solo ora con l’epidemia e i suoi postumi sembra decollare un nucleo di riequilibrio e convergenza fiscale protettiva dell’Unione nel suo complesso. Ma in un contesto in cui peseranno le difficoltà dell’occupazione e dell’economia post Covid.

 

Se si mettono nel conto gli errori (il caso Benalla), le esitazioni e le retromarce di fronte alla rivolta delle periferie, le divisioni e l’immaturità politica della nuova classe dirigente “ni de droite ni de gauche”, sebbene con un alto tasso di competenza e cultura di molti suoi dirigenti, viene fuori un quadro complicato anche per le presidenziali e le legislative che si delineano alla fine del quinquennato (2022). (segue a pagina quattro)

Macron si è fatto banditore di un progetto molto ambizioso in un paese molto difficile, e non è detto che gli riesca con un secondo mandato di realizzare quello che in nessun altro paese occidentale è stato mai realizzato, un cambio di sistema e di orientamento civile e culturale fondato sul seppellimento delle ideologie tradizionali.

  

La vittoria dei Verdi e il mancato ritorno di un bipolarismo destra-sinistra più classico, dà tuttavia qualche speranza. Per quanto coalizzati spesso a sinistra, vista l’ostilità all’ambientalismo della destra economica classica, i Verdi sono il ricettacolo anche elettorale di un’esigenza di terza forza o di soluzioni terze e modernizzanti rispetto al classismo vecchio stile. Macron, che conosce l’arte delle trasformazioni in corso d’opera, ma stenta a padroneggiarne le conseguenze come nel caso della borsa pubblica scucita davanti all’insurrezione dei gilet gialli, ha subito anticipato la sua posta ambientalista e, prima di vedere la Merkel per il Recovery fund, ha promesso di investire 15 miliardi nella transizione ecologica. Vedremo. Questa innata mobilità pragmatica del macronismo potrebbe essere una risorsa per le coalizioni future intorno al presidente, e conta anche il mancato riposizionamento bipolare secondo i criteri della tradizione (gollisti-socialisti), come conta in prospettiva la mancanza di avversari solidi che oggi si delinea, salvo sorprese certo possibili.

  • Giuliano Ferrara Fondatore
  • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.