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In Mongolia il vaccino al coronavirus c'è già: è Genghis Khan

Giulia Pompili

Lo sconfinato paese asiatico oggi ha poco più di duecento casi di Covid. La narrazione epica del Grande conquistatore viene fuori anche in rapporto alla pandemia

Roma. I mongoli hanno un’ossessione per Genghis Khan. Il condottiero a cavallo che nel tredicesimo secolo conquistò mezzo mondo euroasiatico rappresenta l’identità della Mongolia, e nonostante fosse un grande stratega bellico ma anche un sanguinario assassino – secondo gli storici probabilmente responsabile della morte di 40 milioni di persone – la sua eredità è oggi esaltata di continuo in tutti i discorsi pubblici. Fino al 1992, quando la Mongolia era ancora sotto il potere comunista, la figura di Genghis Khan era praticamente proibita, cancellata, ed è anche per questo che negli ultimi trent’anni si è trasformata nel simbolo di un nuovo nazionalismo populista, nello sconfinato paese asiatico da sempre stretto tra occidente, Russia e Cina. Il presidente Battulga Khaltmaa, ex lottatore eletto nel 2017, è “il più grande fan di Gengis Khan”, scrive Bloomberg. E’ stato lui, nel 2008 quando ancora era ministro, a volere a tutti i costi la famosa Statua equestre del condottiero, un monumento d’acciaio alto quaranta metri e posizionato in mezzo alla steppa, a un’ora di macchina dalla capitale Ulan Bator, circondato da un parco a tema tutto dedicato al Grande conquistatore. Qualche settimana fa il viceministro del’Energia mongolo, Gantulga Tudevkhuu, ha scritto sull’agenzia di stampa statale Montsame che “Sua Signoria il Coronavirus ha preso il potere e ha imposto nuove regole”, e che “se prende tutti i territori raggiunti dai dieci più grandi condottieri, compreso Genghis Khan, Sua Signoria il Coronavirus è quello che ha conquistato di più”. E quindi il virus ha battuto il Gran Khan? Non proprio.

  

Un dato però c’è: la Mongolia oggi ha poco più di duecento casi di Covid. E i motivi sono facilmente intuibili: il paese ospita tre milioni di persone su un territorio che è il diciottesimo al mondo per grandezza. La densità abitativa è tra le più basse del globo, e gran parte della vita dei mongoli si svolge all’aperto. C’è poi qualcuno che ha messo in relazione il particolare clima di alcuni paesi con l’assenza di epidemie virali. Insomma, esistono spiegazioni scientifiche non ancora provate, ma possibili.

 


Foto Tolunay Karavar/Unsplash


 

D’altra parte, la narrazione epica del Grande conquistatore viene fuori anche nel caso del coronavirus. Sul South China Morning Post di ieri, Antonio Graceffo ha raccolto alcune testimonianze di mongoli convinti che il motivo del successo della Mongolia nella pandemia sia dovuto a Gengis Khan. Per esempio, si cita un certo monaco Ukhaanzaya Dorjnamnan, che dice: Genghis Khan ha scelto questa terra perché è buona. E ha promesso di proteggerci”. Nelle innumerevoli leggende nate sul condottiero negli anni, c’è anche quella che lo vorrebbe quasi fondatore della medicina tradizionale mongola, o comunque molto attento alla salute dei suoi cittadini. Il Post cita poi il medico Chinburen Jigjidsuren, special advisor per il governo di Ulan Bator per la pandemia. Anche lui dice: certo, siamo stati molto bravi a comunicare, abbiamo evitato che le persone andassero nel panico, e questo ce l’ha insegnato sapete chi? Genghis Khan. “Le truppe di Genghis Khan erano molto disciplinate”, ha detto al giornale, “e quella disciplina è arrivata fino a noi: quando abbiamo detto che bisognava indossare la mascherina, tutti hanno ubbidito”.

  

Anche la capacità di resistere a tutti questi virus moderni sarebbe un’eredità del condottiero, che ha viaggiato in lungo e largo incontrando tutte le malattie possibili ma rendendo il popolo mongolo versatile e resistente, spiega la sciamana Enkh-Ouyn Byambadorj. Già qualche anno fa, attraverso l’analisi del Dna degli scheletri e lo studio dei documenti storici, gli scienziati avevano scoperto che erano state proprio le truppe di Genghis Khan a diffondere in mezzo mondo l’epatite B.

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.