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Alle origini dell'euroscetticismo italiano. Una proposta per superarlo

Jean-Pierre Darnis e Federico Niglia

Il senso di distacco nei confronti dell’Ue, le ragioni storiche, la paura del vincolo esterno e il futuro dopo la pandemia

E’ ancora presto per dire se la pandemia accentuerà il senso di distacco degli italiani nei confronti dell’Unione europea. Certo, i sondaggi condotti in questo periodo sembrano confermare un trend oramai consolidato che vede gli italiani fortemente scettici nei confronti della capacità dell’Unione Europea di fornire risposte efficaci alle necessità specifiche del paese e dei suoi cittadini. E’ certamente possibile (e auspicabile) che l’Unione europea sappia definire una strategia di ampio respiro che permetta ai paesi membri di cogliere l’occasione di questa “transizione forzata” per una profonda ristrutturazione dei rispettivi sistemi paese. L’impressione è però che in Italia si sia creato uno scollamento tra scelte politiche effettive operate dall’Unione europea e percezione della stessa da parte degli italiani. A voler fare i provocatori, si può dire che l’idea di una Ue “matrigna” sia oramai diffusa senza barriere tra partiti e settori dell’opinione pubblica e che questa immagine rimarrà comunque, anche in caso di una risposta efficace dell’Unione.

  

L’attuale sentimento euroscettico si è consolidato nell’ultimo trentennio e si distingue in modo profondo dall’antieuropeismo che aveva caratterizzato gli anni della Guerra fredda. Nel mondo antecedente al 1989 l’antieuropeismo era appannaggio delle forze di sinistra ed era spiegabile con la necessità di evitare un rafforzamento economico e politico dei paesi dell’Europa occidentale. Vi era, poi, un antieuropeismo che potremmo definire “nazionalista”, ovviamente più legato al mondo della destra ma per certi aspetti già trasversale al sistema dei partiti, che intravedeva nella cessione di sovranità insita già nei trattati di Roma del 1957 una pericolosa spoliazione dello stato.

 

Tutto questo però è stato profondamente bilanciato da due fattori: il primo è stato l’europeismo profondo della classe politica che ha governato il paese dal dopoguerra in poi. E’ certamente vero che nella fantomatica Prima Repubblica la coscienza dell’europeismo era spesso molto debole soprattutto nelle seconde file della classe politica e che l’azione nelle istituzioni europee veniva declinata secondo parametri esclusivamente nazionali. Ma è altrettanto vero che chi ha governato l’Italia fino ai primi anni Novanta ha avuto sempre un’alta considerazione dell’importanza del processo di integrazione europea e ha saputo difenderlo dalle mareggiate interne. Il secondo fattore riguarda invece l’opinione pubblica: questa ha mantenuto per decenni un atteggiamento di tendenziale favore verso l’Europa e la sua integrazione, senza che l’Europa confluisse in quel crescente sentimento antipolitico che ha caratterizzato i moderati italiani fino ai primi anni Novanta.

 

E’ possibile vedere nei primi anni Novanta il momento in cui questo paradigma si modifica e diventa, per certi versi, più contraddittorio. Il trattato di Maastricht rappresenta uno sviluppo coerente con le premesse ideali ma anche politiche ed economiche dell’europeismo italiano che aveva avuto, in quel vertice di Venezia del 1985 e nel successivo Atto Unico, un momento di rinvigorimento. La prova che le scelte compiute in quel frangente siano state corrette la si ha guardando al fatto che tutti i governi della seconda repubblica l’hanno sostanzialmente confermata: sia i governi Berlusconi che quelli del centro-sinistra hanno riconosciuto, pur con accenti e interpretazioni diverse, l’importanza che ha l’Unione europea come “casa” dell’Italia. Si può addirittura sostenere che l’europeismo sia stato un tratto tanto distintivo quanto silenzioso della cosiddetta Seconda Repubblica e che la sua eventuale fine potrebbe avvenire, tra l’altro, a causa di una ridefinizione del rapporto con l’Unione europea.

 

Nei primi anni Novanta vanno però cercate, accanto alle ragioni della continuità dell’europeismo, anche le motivazioni dell’attuale ondata di euroscetticismo. La prima è sicuramente nel “peccato originale” legato alla mancata condivisione con l’opinione pubblica di una scelta fondamentale per il paese, di una scelta le cui ricadute sulla vita dei cittadini sarebbero state subito evidenti. Pur rientrando all’interno di un percorso già definito, il trattato di Maastricht rappresentava un salto dell’europeismo che avrebbe dovuto essere maggiormente condiviso, anche in chiave critica, dagli italiani. Vi sono, naturalmente, delle circostanze oggettive che spiegano questo corto circuito, vi è indubbiamente il crollo del sistema dei partiti, inteso come luogo di elaborazione dei sentimenti collettivi e della loro traduzione in scelte e orientamenti politici. Ma in quel momento vi è anche la pretesa, soprattutto da parte del mondo tecnocratico che ha presieduto alla prima attuazione di quegli impegni, che fosse più importante realizzare che spiegare la nascente Unione europea. Era un ragionamento che riecheggiava quello dei primi fattori dell’integrazione europea, in particolare Jean Monnet, per i quali l’accettazione dell’integrazione europea sarebbe avvenuta automaticamente nel momento in cui questa avesse iniziato a dispiegare i suoi effetti positivi sugli europei.

 

Uno degli aspetti più problematici del processo di integrazione europea degli ultimi trent’anni risiede nella natura del vincolo esterno. Questo venne attivato, come testimoniato dallo stesso Guido Carli, nella convinzione che dall’agganciamento all’Europa potesse scaturire un percorso virtuoso di riforme e rinnovamento che avrebbe permesso all’Italia di uscire dalla crisi in cui si trovava. La questione del vincolo si è posta però negli anni successivi in chiave sempre più problematica e non solo per la difficoltà per l’Italia di seguire il percorso di riforme indicato da (e con) Bruxelles. La tendenza a scambiare il vincolo esterno per lazzo deriva anche dalla tendenziale refrattarietà con cui gli italiani hanno, nella loro storia, digerito le alleanze considerate troppo invasive.

 

A rendere il vincolo accettabile ha contribuito certamente il ventennio berlusconiano, durante il quale vi è stato un progressivo superamento, da parte di settori rilevanti dell’opinione pubblica, di quel complesso di mancata realizzazione che aveva accompagnato il paese nei decenni precedenti. Ma a questo ha anche contribuito una particolare declinazione dell’idea di nazione che si è affermata nel corso dell’ultimo quindicennio. Sdoganata da soprattutto da Carlo Azeglio Ciampi e riconosciuta di nuovo come componente fondamentale anche della politica estera italiana (si veda, ad esempio, quanto scrisse in merito Carlo Maria Santoro), l’idea di nazione è stata però interpretata da alcuni come una forza antitetica a quella di Europa. Anche senza diventare nazionalismo, la nazione è stata concepita come una forza opposta a quella dell’integrazione europea, dimenticando che la prima idea di nazione, quella che ha portato all’unità d’Italia e che ne ha ispirato la politica estera almeno fino alla Prima guerra mondiale, è stata un’idea costitutivamente europea. Vi è stata poi una declinazione “geopolitica” fortemente semplicistica dell’idea di nazione che si è diffusa a partire dai primi anni Novanta e che ha conquistato molti aspiranti analisti e appassionati di Risiko: tutti attratti dall’idea che vi fosse un nuovo Grande Gioco delle potenze (europee e non) e che tutto andasse spiegato secondo i canoni della geopolitica spiccia. Il tutto sminuendo e non considerando adeguatamente il peso delle idee e delle istituzioni, cioè proprio quello che è l’Unione europea.

 

Quello di oggi è un euroscetticismo composito, che sconta una serie di peccati originali ma anche una lettura che tende a mal interpretare valore e obiettivi del processo di integrazione europea. L’unica risposta possibile è quella di un “europeismo composito”, cioè un misto di buone politiche, ottime narrative e coinvolgimento. Ingredienti che fino oggi scarseggiano.

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