Proteste davanti alla Casa Bianca a Washington per la morte di George Floyd (foto LaPresse)

Sirene d'America

Paola Peduzzi

Dal lockdown al coprifuoco per le proteste ci sono due linee rosse: la solidarietà locale, l’assenza del leader

Milano. A Minneapolis ieri era la data prevista per la riapertura dopo il lockdown, ma ogni cosa è andata a rilento, perché da giovedì scorso la città del Minnesota vive con il coprifuoco introdotto dopo l’uccisione di George Floyd da parte di un poliziotto. La ferita antica – il nero ucciso dal poliziotto bianco – si somma a quella nuova – la pandemia – e l’effetto è amplificato dal fatto che a guidare l’America oggi c’è un presidente incendiario che dopo giorni di violenze non è riuscito a dire nulla di rassicurante agli americani. I giornali hanno in ogni titolo le parole “rabbia” e “angoscia”, si rincorrono negli articoli sulle proteste e in quelle sulla pandemia, una linea rossa che sa di incertezza per il futuro e di un’accelerazione degli effetti dell’emergenza. Le sirene fanno da sottofondo: quelle delle ambulanze nei silenzi del lockdown, quelle dei saccheggi di oggi. I commentatori si interrogano sul ruolo di Donald Trump – uno per tutti: il direttore del New Yorker, David Remnick, chiede: chi è qui “il sobillatore?” – e qualcuno arriva a sostenere, come James Fallows sull’Atlantic, che questo è l’anno peggiore della storia americana. La ferita antica diventa più agghiacciante ogni volta che si riapre: il Washington Post ha guardato i documenti della polizia a livello nazionale e ha stabilito che se sei nero hai il doppio delle probabilità di un bianco di essere ucciso da un poliziotto. Il doppio. La ferita nuova ha un record di 100 mila vittime e porta con sé il sospetto diffuso che la gestione del virus da parte di Trump abbia avuto un ruolo deleterio in questo conteggio tragico. L’effetto finale è immortalato nelle immagini che rimbalzano sui social e nelle tv, fuochi, incendi, facce coperte, l’incertezza sulla capacità del governo americano di riuscire a controllare questa confusione. Anzi, di più: di volerla controllare. Perché nelle domande c’è sempre un dubbio: Trump non sa o non vuole dire e fare la riconciliazione? Un esempio: la giornata di domenica – raccontano i retroscenisti – è trascorsa con il presidente Trump all’attacco contro i suoi nemici storici su Twitter mentre il suo staff si divideva sulla necessità di tenere un discorso per calmare la situazione. Molti non sapevano nemmeno cosa augurarsi. 

 

 

Le proteste aumentano, partono pacifiche e diventano violente, i video dei poliziotti con le spranghe si moltiplicano, i saccheggi pure e ci sono almeno 4.500 arrestati in tutto il paese. Soprattutto sembra che non ci possa essere una fine. In assenza della leadership di Trump, si cercano voci alternative (e si guardano gli archivi per ricordarci cosa è successo in passato quando la cura delle ferite era un obiettivo, una battaglia condivisa). Ci sono molti amministratori che hanno saputo trovare parole terapeutiche. O anche solo un messaggio chiaro. Il sindaco di Atlanta, Keisha Lance Bottoms, ha detto: andate a casa, siamo meglio di questa devastazione, non soltanto noi cittadini di Atlanta, ma noi americani tutti (naturalmente per molti la determinazione della Bottoms è stata rafforzata dalla voglia di farsi notare a livello nazionale: il Partito democratico sta facendo un grande talent scouting non soltanto per la vicepresidenza ma per la costruzione di una nuova classe dirigente). Medaria Arradondo, capo della polizia di Minneapolis, ha parlato per la prima volta domenica alla famiglia di George Floyd, interpellato da una giornalista della Cnn, e ha detto rivolto al padre e al fratello: “Stare in silenzio o non intervenire per me è come essere complici”. Le conseguenze di queste parole sono enormi dal punto di vista legale, ma segnalano anche uno scopo preciso: le proteste chiedono giustizia in fretta, il capo della polizia di Minneapolis, che ha una fama pessima (non lui, la polizia), mostra di avere ben presente questa urgenza, e di voler dare una risposta. Soprattutto hanno fatto il giro del mondo i “day after” dei saccheggi e delle proteste: le persone che andavano a ripulire i quartieri (a Minneapolis in particolare, si tratta soprattutto dei quartieri a prevalenza afroamericana, il che fa propendere per la tesi degli infiltrati nelle proteste). Non è la prima volta che succede, ma in questo momento in cui le ferite antiche e quelle di adesso si accavallano, la solidarietà delle persone inizia a essere una costante. Anne Applebaum, saggista che ha raccontato lo scempio del regime sovietico e che sta per pubblicare un libro che suona già doloroso, “Il crepuscolo della democrazia”, dice: “E’ davvero sorprendente come, in assenza di una qualsiasi leadership presidenziale, così tanti sindaci, governatori e persino capi di polizia stanno parlando la lingua della riconciliazione e della democrazia”.

  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi