Un murales a Kabul che mostra l'inviato americano Zalmay Khalilzad e il Mullah Abdul Ghani Baradar (foto LaPresse)

Gli Shabaab afghani tornano liberi a migliaia ma per loro non ci scaldiamo più

Daniele Raineri

Abbiamo uno strano meccanismo selettivo, scattiamo per un dettaglio, come il recupero di un ostaggio a Mogadiscio, e non vediamo più la cornice

In questi giorni il governo afghano ha sospeso il rilascio di prigionieri talebani perché i talebani non stanno ricambiando con altrettanta generosità. Lo scambio in corso è il frutto dell’accordo del 29 febbraio tra l’Amministrazione Trump e i fanatici talebani, che un tempo tenevano quasi tutto il paese sotto il loro regime brutale e adesso sono tornati a controllarne poco meno della metà grazie a una campagna di guerriglia che va avanti da anni. Prevede che Kabul lasci andare liberi cinquemila talebani e che la controparte restituisca i suoi prigionieri di guerra, che sono molti meno: circa mille, e c’è anche un imbroglio perché il numero dei prigionieri di guerra in mano ai guerriglieri è stato gonfiato con una serie di rapimenti di civili last minute. I talebani dicono così di liberare soldati afghani, ma nel mazzo ci mettono un po’ di persone sequestrate per l’occasione – per fare numero. Il governo assicura che sta rimandando a piede libero soltanto combattenti di basso livello, che inoltre firmano un impegno a non usare più le armi. Tutto doveva concludersi entro il dieci marzo, ma gli estremisti tergiversano, chiedono di più, ritardano le liberazioni, vogliono la scarcerazione di quindici capi molto importanti e le cose stanno andando per le lunghe. Ora c’è una sospensione, si diceva, ma presto lo scambio riprenderà perché tutto si fonda sulla volontà dell’Amministrazione Trump di lasciare l'Afghanistan per sempre e quindi la direzione storica è quella. Per cominciare la trattativa gli americani chiesero nell’ottobre 2018 al Pakistan di rilasciare il Mullah Baradar, che la Cia aveva catturato nel 2010 e consegnato ai pachistani. Baradar è uno dei fondatori del movimento, era il vice del Mullah Omar – il leader carismatico – e la sua cattura è stata la più importante del conflitto. I guerriglieri volevano indietro Baradar, serviva a far partire i negoziati e quindi gli americani acconsentirono, fecero pressione sul Pakistan e lui fu ributtato nel suo elemento naturale.

 

I talebani afghani sono come gli Shabaab della Somalia, tranne alcune micro differenze che non rilevano. Lapidano le donne, ammazzano per motivi religiosi, celebrano gli attentati suicidi, obbligano le donne al burqa (persino più coprente dello jilbab somalo) e intrattengono rapporti con al Qaida. Tanto per essere precisi: gli Shabaab somali hanno giurato fedeltà ad al Qaida che a sua volta ha giurato fedeltà al leader talebano Mullah Omar. Ma è come se l’arco della pericolosità dei talebani afghani fosse arrivato al termine, sono parte del paesaggio, non spaventano più perché adesso è una nuova stagione e in questa stagione c’è da fare la pace. Una settimana fa l’inviato speciale di Trump per l’Afghanistan, Zalmay Khalilzad (è un diplomatico americano di origini afghane) ha incontrato per l’ennesima volta Baradar a Doha, in Qatar, il regno arabo che ospita i negoziati. E’ una notizia che qualche anno fa sarebbe suonata incongrua, oggi non suscita alcuna reazione. Cinquemila talebani liberati sono una statistica, non ci mettono apprensione, non fanno scattare il nostro sistema d’allarme. Negli Stati Uniti il circuito di giornalisti e pensatori trumpiani in questi giorni tratta gli epidemiologi peggio degli insurgents. Anzi, i talebani ormai fanno parte della politica ufficiale antiterrorismo in Afghanistan, si occuperanno di fare la lotta allo Stato islamico – che tenta di crescere, ieri ha attaccato un ospedale dentro alla capitale. Anche in questo non sono diversi dagli Shabaab, che in Somalia si scannano con gli uomini dello Stato islamico. Ma abbiamo uno strano meccanismo selettivo, scattiamo per un dettaglio – il recupero di un ostaggio a Mogadiscio – e non vediamo più la cornice: il conflitto afghano che piano piano finisce con la vittoria di quelli cacciati nel 2001 dopo l’attacco alle Torri di New York ci ha logorato e ci sembra normale.

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  • Daniele Raineri
  • Di Genova. Nella redazione del Foglio mi occupo soprattutto delle notizie dall'estero. Sono stato corrispondente dal Cairo e da New York. Ho lavorato in Iraq, Siria e altri paesi. Ho studiato arabo in Yemen. Sono stato giornalista embedded con i soldati americani, con l'esercito iracheno, con i paracadutisti italiani e con i ribelli siriani durante la rivoluzione. Segui la pagina Facebook (https://www.facebook.com/news.danieleraineri/)