Il premier Giuseppe Conte con il primo ministro albanese Edi Rama (foto LaPresse)

Dare un senso alla solidarietà albanese

Nicola Pedrazzi

Ciclicamente Edi Rama emoziona l’opinione pubblica italiana, ma cosa sappiamo di lui, del suo paese e delle relazioni con l’Italia?

277 contagiati, 76 ricoverati e 16 vittime. Al 2 aprile è questo il bilancio ufficiale dell’epidemia Covid-19 in Albania, dove dal 10 marzo sono in vigore misure di quarantena più dure di quelle italiane, perché i mezzi di trasporto (anche privati) non possono circolare ed esistono fasce orarie di vero e proprio coprifuoco (solo una persona a famiglia può uscire per fare la spesa, previa autorizzazione). È in questo quadro, drammatico anche per i cittadini albanesi, che il governo di Tirana ha deciso di inviare 30 medici e infermieri in Lombardia, come segno di vicinanza all’Italia in difficoltà. Un gesto dall’alto valore simbolico, che ha scaldato il cuore di tanti italiani in cerca di segni dentro a questa notte buia e che è stato salutato dai politici di ogni ordine e grado, come si conviene in frangenti simili, come si conviene alle piattaforme social. Spetterebbe a noi commentatori senza l’onere della politica e della diplomazia cercare di andare oltre, per collocare la mossa albanese nel suo contesto politico; spetta a noi non accontentarci della storiella del paese povero dal cuore grande: una parte che l’Albania sembra condannata a recitare nell’infinito romanzo dell’amicizia italo-albanese (un classico che risale a prima del fascismo, alla primissima Albania “indipendente” di cui l’Italia fu garante).

 

Purtroppo, quando si tratta di Albania – un oltre mare stereotipato, abbinato alternativamente alla migrazione, alla povertà, alla “balcanità”, all’Oriente – i nostri media fungono da meri ripetitori dei politici dell’altra sponda, come se non fossero dei politici da intervistare, decifrare e interpretare alla luce della ragion di Stato e degli interessi che incarnano, ma degli esotici amici un po’ filantropi, schietti e privi di fini. Abilissimo nello sfruttare le debolezze del nostro giornalismo sugli Esteri, l’italofono ministro albanese Edi Rama, “un artista prestato alla politica” (questa la definizione ch’egli ci ha insegnato ad attribuirgli) è innanzitutto un politico controverso, sia dal punto di vista della gestione del potere interno sia per quanto concerne la sua ambigua politica estera, sospesa tra Turchia e Ue.

  

  

Non è la prima volta che il primo ministro albanese buca lo schermo di una crisi italiana o europea. Nel gennaio 2015, a pochi giorni dalla strage nella redazione di Charlie Hebdo, Rama vola a Parigi per sfilare con gli omologhi dei grandi paesi: nel taschino tre matite colorate, in nome dell’arte e della libertà d’espressione, certo, ma altrettanto funzionali a ricordare a tutti il calibro dell’uomo che governa il principale paese musulmano dei Balcani (due anni più tardi, ormai accreditato presso le cancellerie e la stampa internazionale Rama esporrà alla Biennale di Venezia i suoi schizzi tracciati durante le riunioni politiche, moltiplicando il cortocircuito tra arte e politica sul quale in questi anni ha ridisegnato il centro della capitale Tirana, sempre più visitata).

 

  

Nell’agosto 2018, lo ricorderete più facilmente, Edi entra a gamba tesa nella politica italiana: l’allora ministro degli Interni Matteo Salvini continua a impedire lo sbarco della nave Diciotti al porto di Catania, il ministro degli Esteri Enzo Moavero Milanesi non sa che pesci prendere e per sbloccare la situazione concorda in fretta e furia con Tirana un tweet di ringraziamento all’Albania per la “decisione ad accogliere venti migranti”. Anche allora il post venne accolto da una commozione bipartisan e da grossolane interpretazioni antropologiche sulla generosità della cultura albanese e sulla memoria di un popolo “un tempo migrante e oggi perfettamente integrato”; un’emozione che ha bruciato per settimane noncurante del fatto che nessun asilante della Diciotti è mai arrivato in Albania e che il 100% del carico umano di quello sbarco ha raggiunto la Francia, la Germania, il Belgio, quegli “indifferenti paesi europei” che nel discorso politico del governo Conte I e dei suoi ministri – memorabile questo siparietto di Luigi Di Maio, al tempo allo Sviluppo economico – non avevano dimostrato il cuore e l’europeismo della piccola Albania.

  

 

Sia chiaro, questi poco edificanti precedenti di sòcial-diplomazia italo-albanese non ricalcano esattamente quanto successo in questi giorni. I medici albanesi sono realmente arrivati a Brescia: è un fatto e una buona idea politica, non solo per il contributo che sapranno portare in un frangente di difficoltà estrema, ma per quello che apprenderanno ed eventualmente riporteranno a casa. Non si tratta dunque di sminuire un gesto che è rilevante soprattutto per la quantità di energia immaginifica che è riuscito a sprigionare presso la nostra opinione pubblica, ma di ricondurlo a tutto lo spettro delle motivazioni politiche che lo hanno generato, moventi di cui la solidarietà internazionale fa parte, purché non la si racconti come ingrediente puro in contrapposizione alla passività di altri attori (si veda la vituperata Unione europea).

  

Ufficialmente candidata dal 2014, l’Albania di Edi Rama ha da pochi giorni ottenuto l’apertura dei negoziati di adesione all’Ue: un risultato inatteso, perché per raggiungere l’unanimità in seno al Consiglio europeo ci sono voluti anni (è legittimo ipotizzare che avendo scompaginato le agende di tutti i governi, la pandemia abbia in qualche modo oliato il dossier Albania, sinora tenuto fermo dalle resistenze francesi…). In questa congiuntura internazionale favorevole, con un consenso interno molto basso, il Parlamento abbandonato dalle opposizioni e gli organi costituzionali dello Stato congelati dall’arrancante riforma del sistema giudiziario, Rama è tornato a fare quello che meglio ha fatto negli ultimi sette anni di premierato: bucare l’attualità europea con gesti che fanno parlare di lui (soprattutto tra il mezzo milione di albanesi in Italia, i veri beneficiari di stereotipi finalmente positivi) e dimenticare la realtà locale del suo paese: un piccolo Stato periferico, una democrazia in via di democratura, che soffre ed è a rischio anche per le negligenze interne del suo leader celebre fuori.

 

Le draconiane misure di quarantena, prese in sincronia con noi ma inasprite sino alla coercizione, raccontano di un paese che ci guarda e che si fida di noi, ma soprattutto di un paese privo di rete sanitaria. Al momento gli ospedali a disposizione della crisi sono soltanto tre: il reparto malattie infettive del Madre Teresa di Tirana, il più grande ospedale del paese (120 posti), il cosiddetto “Sanatorio”, sempre a Tirana (190 posti) e una struttura turistica allestita per l’occasione a Durazzo (700 posti). Da qualche giorno il governo sta ristrutturando la vecchia sede dell'Università Kristal (quella che inviò via mail la laurea al figlio di Umberto Bossi), dove dovrebbero trovare posto un centinaio di posti letto. Stando a quanto dichiarato dalla ministra della sanità Ogerta Manastirliu, in tutta l’Albania le macchine respiratorie non sarebbero più di 200, con altre 100 in arrivo imminente (tutti i numeri sopra riportati vengono da dichiarazioni probabilmente ottimistiche, e anche le cifre ufficiali sul contagio sono del tutto aleatorie, in un Paese dove i media sono un mero megafono della politica).

 

In poche parole, i dirigenti albanesi sanno perfettamente che il loro paese non è attrezzato, sanno che oltre la trincea del lockdown non ci sono difese: e comprensibilmente, con buon tempismo, tessono la tela della solidarietà internazionale. I giornalisti italiani raramente danno voce agli albanesi che in Albania ci vivono ancora (per la cronaca, la migrazione albanese non è finita negli anni Novanta, prosegue via aereo, senza barconi e sensazionalismi, utilizzando spesso impropriamente il sistema di asilo europeo). Se lo facessero, mentre plaudiamo al gesto di un governo amico – che «buono» rimane anche qualora sia propedeutico a un’auspicata solidarietà di ritorno – potremmo, proprio nel nome della tanto sbandierata amicizia tra popoli europei, metterci nei panni di un cittadino albanese che perde i pochi medici che il suo stato riesce a formare, non perché Rama li invia in missioni umanitarie in paesi più attrezzati, ma perché il sistema non riesce a renderli utili. Secondo monitor.al, uno dei principali portali statistici del paese, nell’ultimo lustro quasi mille professionisti del settore sanitario sono emigrati in paesi europei, alla ricerca di migliori condizioni di lavoro (in Albania lo stipendio medio di un medico ammonta a 500 euro); stando al rapporto stilato nel 2017 da Euro Health Consumer Index in Albania ci sarebbero 130 medici ogni 100.000 abitanti, tra le più basse medie europee. In conseguenza di tutto ciò, come ben spiegato dal portale Salute Internazionale, le deficienze del sistema sanitario nazionale spingono molti albanesi ad appoggiarsi a parenti ed amici emigrati per ricercare percorsi di cura all’estero (in Italia la formula più usata per ricevere assistenza è quella dell’STP - Straniero Temporaneamente Presente).

 

Qualora, e ci auguriamo con tutto il cuore che non avvenga, il contagio da Covid-19 esplodesse anche in Albania, l’esercito, la Croce rossa e la Protezione civile italiana saranno giocoforza coinvolte, come accaduto nel novembre scorso all’indomani del terremoto, e come già avvenuto negli anni della transizione con due operazioni militari, la missione Pellicano (1991) e la missione Alba (1997). Al contempo saranno coinvolti gli ospedali italiani: perché è quello che avviene da anni, in regime di normalità, alla luce delle forti relazioni tra i due paesi, anche al netto del disimpegno italiano.

 

Nonostante le promesse elettorali fatte dal “socialista” Edi Rama sia nel 2013 che nel 2017, nessuno dei suoi governi ha mai lavorato seriamente alla creazione di una Protezione civile autoctona, alla definizione di moderne procedure di emergenza, a un vero rinforzamento del sistema ospedaliero: priorità e percorsi di investimento che la comunità internazionale con in testa l’Unione europea – quell’insensibile creatura politica che mentre sentenziamo che non esiste sta accompagnando lo sviluppo e la stabilità di tutto il Sud-Est Europa – sarebbero disponibili a sostenere, ma la politica albanese ha battuto altre strade, molto spesso lontanissime dai bisogni primari delle persone, ed appoggiandosi all’estero solo per la propaganda di ritorno che abbiamo visto funzionare alla perfezione in queste ore. Ad oggi, la maggior parte degli ospedali albanesi (circa 50) è pubblico, ma le cliniche realmente funzionanti sono costruite e gestite da imprenditori esteri per internazionali che nel paese sono di passaggio, luoghi sostanzialmente inaccessibili al cittadino medio. A oggi, gli albanesi che varcano la soglia di un ospedale pubblico sanno che è meglio portarsi garze e siringhe da casa, sanno che dovranno allungare la mancia al personale per ottenere attenzione o garantirsi una priorità: cose che accadono nel Madre Teresa di Tirana, non solo in provincia.

 

I medici che Edi Rama ha inviato ad aiutarci vengono da questo contesto e da calcoli politici che da questo discendono, da una strategia che lucra all’estero il consenso e le soluzioni sempre più mancanti in patria: è bene dirlo, scriverlo, saperlo. Affinché agli albanesi vada un’attenzione vera, unita all’impegno – tutto politico – per la costruzione di un’Albania reale, non condannata a vivere dell’immaginario del suo tutore.

 

*Nicola Pedrazzi, giornalista pubblicista, è stato corrispondente da Tirana per Osservatorio Balcani e Caucaso ed è redattore della Rivista “il Mulino”

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