Mark Zuckerberg a Bruxelles per riscrivere le regole di internet (foto LaPresse)

I cattivi di Facebook

Paola Peduzzi

Trump riduce l’investimento sul social di Zuckerberg: teme che non sia più libero com’è ora. Il rancore dei sandersiani

Milano. Gli ultimi dati sugli investimenti nelle campagne elettorali dei candidati americani mostrano che l’ossessione di Donald Trump per Facebook è un pochino più contenuta rispetto al passato. Una fonte della campagna per la rielezione del presidente ha detto al sito Axios: “Come tutti possono vedere, la spesa su Facebook è ancora molto sostenuta, ma la percentuale dell’intero budget dedicata a questo social media si sta riducendo”. Già alla fine dello scorso anno, la campagna di Trump aveva segnalato la propria insofferenza sul proprio account su Twitter: Facebook vuole toglierci strumenti importanti di comunicazione politica, diceva, e vuole aumentare il prezzo delle pubblicità”. Il timore – non soltanto dei trumpiani – è che le regole per Facebook cambino per davvero, viste le continue pressioni, e che la potenza di questo social ora libero dai controlli si riduca. I dati di Advertising Analytics sintetizzano alla perfezione questo timore: nell’aprile dello scorso anno, il team trumpiano investiva il 72 per cento del budget in comunicazione su Facebook, la media è rimasta del 50 per cento durante il 2019, ma nelle ultime settimane c’è stato un calo: ora le ads su Facebook valgono il 14 per cento del budget totale e il blitz più consistente c’è stato non per la comunicazione sulla rielezione ma sull’impeachment. Ora l’imperativo è la diversificazione: YouTube e Google, ma anche pubblicità nei podcast di media o giornalisti conservatori. “Stiamo sperimentando decine di piattaforme diverse per comunicare con gli elettori – ha detto la fonte ad Axios – Appena troviamo una strada efficiente, ci spenderemo più soldi”. Contestuale alla diversificazione di Trump c’è il grosso investimento di Mike Bloomberg.

 

L’ex sindaco di New York ha una campagna di comunicazione digitale creativa (sperimenta molti linguaggi), ma il grosso del suo investimento – e per grosso si intende che Bloomberg investe più di tutti gli altri candidati, compreso Trump, messi insieme – è su Facebook. Con tutta probabilità, la potenza di spesa di Bloomberg gli consente la massima flessibilità: se dovesse accorgersi che le regole su Facebook diventano restrittive, cambierà destinazione ai suoi investimenti in tempo breve. Chi non ha questi margini di manovra – cioè tutti gli altri – deve prestare maggiore attenzione e cautela ai propri investimenti. Ne sa qualcosa Bernie Sanders, senatore del Vermont che, approfittando della frammentazione dell’offerta dei democratici moderati, sta riempiendo comizi a tutto spiano (le immagini del fine settimana da Denver, Colorado, sono pazzesche) e consolidando la propria candidatura in vista dei prossimi appuntamenti in Nevada e Carolina del sud. Ma c’è un problema con i suoi sostenitori online, aggressivissimi nei confronti degli altri candidati democratici, al punto che lo stesso Sanders è dovuto intervenire: nella mia rivoluzione politica non c’è spazio per chi sparge odio e insulti online, ha detto. Ma ormai i fan sono scatenati, e anzi questo inizio tumultuoso di campagna elettorale – il risultato in Iowa in particolare: Sanders ha vinto il voto popolare, ma per tutti il vincitore è l’ex sindaco di South Bend, Pete Buttigieg – ha convinto ancora più sandersiani di essere vittime di un complotto da parte dell’establishment democratico. Il grande chiacchiericcio attorno alla forza di Bloomberg poi non ha fatto che aumentare questa convinzione, allargando anche il popolo degli indignati. Se i meme brutali che giravano fino a poco tempo fa sulla rivale diretta Elizabeth Warren erano difficili da giustificare, gli attacchi al miliardario ex repubblicano che si-compra-l’-elezione lo sono molto di più.

 

Philip N. Howard, direttore del Computational Propaganda Project dell’Università di Oxford (una miniera di dati e di meccanismi sull’utilizzo dei social e in particolare dei gruppi Facebook), ha detto al Washington Post: “Forse non dovremmo sorprenderci troppo se le tattiche usate dai russi nel 2016 ora vengono usate dai candidati americani uno contro l’altro”. L’interferenza ora è tutta endogena, insomma. E mentre Trump studia metodi nuovi per la sua rinomata campagna di polarizzazione e Sanders deve tenere a bada i suoi, Bloomberg denuncia gli “angry bros” di Sanders, i sandersiani arrabbiati, e la loro “energia” livorosa: “Dobbiamo unirci per sconfiggere Trump – ha tuittato l’ex sindaco di New York – Questo tipo di ‘energia’ non ce lo farà fare”.

  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi