Il ricatto del petrolio in Libia

Daniele Raineri

Ma quale pace? Haftar ignora la richiesta internazionale di riaprire i pozzi

Roma. Il generale libico Khalifa Haftar ieri ha ignorato le richieste di molti governi – come Stati Uniti, Italia e Gran Bretagna – che chiedevano la fine del blocco della produzione di greggio nel paese. Il suo portavoce ha dichiarato una no-fly zone su Tripoli, la città assediata dalle forze di Haftar, che riguarda anche gli aerei civili che trasportano passeggeri (non dice cosa succederà: li abbatteranno?). Per mesi si è parlato della possibilità che i governi occidentali stabilissero una no-fly zone in Libia per fermare i bombardamenti contro i civili, ora la dichiara Haftar – ma lo scopo è isolare ancora di più la capitale e tenere lontani i rinforzi per il suo nemico, il premier Fayez al Serraj.

   

La mossa del generale nel settore energia è brutale e efficace. La Libia va avanti soltanto grazie alla vendita di gas e petrolio, i cui ricavi arrivano a un’istituzione centrale, la Noc, che poi provvede a spartirli fra le due metà del paese. Haftar scommette che la sua parte di Libia potrà resistere più a lungo della parte di Libia ancora sotto il controllo dei suoi nemici, quindi pensa soprattutto alle città di Tripoli e di Misurata. Così ha ordinato la chiusura degli oleodotti e dei quattro porti lungo la costa a cui attraccano le petroliere. Per non incorrere nell’ira della comunità internazionale è ricorso a un trucchetto, ha detto ai clan locali di dichiarare che sono stati loro a bloccare la produzione di greggio in segno di protesta contro le ingerenze della Turchia, ma nessuno ci è cascato. Così, a tre giorni dalla Conferenza di pace di Berlino che doveva in qualche modo aprire una fase di riconciliazione e di speranza, il generale libico prova a strozzare gli avversari. E le proteste dei governi occidentali sono molto flebili e si guardano bene, come al solito, dall’identificare i responsabili.

  

Ogni giorno di blocco costa al paese 77 milioni di dollari, come se i libici potessero farne a meno. Ieri il capo della Noc, Mustafa Sanallah, ha detto al Financial Times che già la produzione è scesa dal livello solito di 1,3 milioni barili al giorno a un terzo, circa 400 mila, ma che nei prossimi giorni si aspetta scenderà a 70 mila, quindi quasi a zero. Lo stesso livello dei tempi della guerra civile del 2011 che segnò la fine di Muammar Gheddafi. I primi effetti sono blackout elettrici in alcune parti del paese perché alcune centrali già funzionano a singhiozzo, ma sul lungo termine la situazione per i libici diventerà intollerabile. Nel sud il prezzo di una bombola di gas per cucinare – che arriva dagli stessi impianti di produzione – è salita di colpo da due a ottanta dinari, dicono alcuni locali al giornale Asharq al Awsat. La zona costiera di Tripoli, quella che dovrebbe essere colpita di più dal blocco, contiene circa la metà della popolazione del paese e fra le altre cose è anche la più vicina all’Italia. Non ci vuole molto a capire che Haftar ha appena creato una crisi nella crisi che va risolta al più presto. Per la più perfetta delle congiunture a suo favore, le previsioni del mercato internazionale dicono che nei prossimi mesi ci sarà un surplus di greggio da altre fonti, quindi il prezzo resterà fermo a dispetto della sparizione temporanea della Libia dall’elenco delle risorse. Il blocco colpisce i libici nemici di Haftar, i consumatori fuori non se ne accorgeranno.

  

Sul perché il generale abbia deciso di aggiungere questa manovra molto pesante all’assedio di Tripoli già in corso non ci sono indicazioni chiare. Forse realizza che con l’arrivo di soldati e difese antiaeree dalla Turchia la capitale libica è diventata ancora più difficile da conquistare. Forse non riesce a tollerare la tregua chiesta dalla comunità internazionale, che intralcia i suoi sforzi per avanzare e che le parti non rispettano al cento per cento: ieri l’aeroporto di Tripoli è stato chiuso per ore perché le forze di Haftar lo avevano bombardato.

   

Negli ultimi dieci giorni i tracciati radar mostrano che gli Emirati Arabi Uniti hanno continuato a far volare aerei cargo militari verso gli aeroporti libici controllati da Haftar. Almeno una ventina di trasferimenti, forse di più, e sono tutti rifornimenti di mezzi per continuare la guerra (forse a bordo c’erano anche consiglieri militari). Gli Emirati sono il primo sponsor di Haftar, più della Russia e della Francia, e continuano a puntare sul proseguimento della guerra.

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  • Di Genova. Nella redazione del Foglio mi occupo soprattutto delle notizie dall'estero. Sono stato corrispondente dal Cairo e da New York. Ho lavorato in Iraq, Siria e altri paesi. Ho studiato arabo in Yemen. Sono stato giornalista embedded con i soldati americani, con l'esercito iracheno, con i paracadutisti italiani e con i ribelli siriani durante la rivoluzione. Segui la pagina Facebook (https://www.facebook.com/news.danieleraineri/)