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Il terzo voto in Israele sarà un referendum su Benjamin Netanyahu

Micol Flammini

In una campagna elettorale ferocissima si parlerà soltanto del premier, in grado di legare il suo destino a quello del paese

Roma. Lo spettro della terza elezione non ha mai abbandonato la Knesset. Nemmeno ventuno giorni fa, quando il presidente israeliano Reuven Rivlin aveva dato al Parlamento l’incarico di trovare qualcuno, un deputato di qualsiasi partito, in grado di formare una coalizione e ottenere la maggioranza. I partiti più piccoli allora si erano affaccendati a cercare volti somiglianti a quello di un leader, avevano tentato di ripetere nomi nella speranza che potessero diventare un po’ più noti. Avevano soprattutto tentato l’impossibile: convincere il Likud di Benjamin Netanyahu e Kahol Lavan di Benny Gantz a formare un governo di unità nazionale. Ma i due partiti sono stati inamovibili, per Gantz non è il Likud il problema, il problema è il suo leader. Dentro al partito del premier ha iniziato a circolare la parola primarie, forse si terranno il 26 dicembre, ma Netanyahu rimane fortissimo e Gideon Sa’ar, il maggior sfidante che mesi fa aveva twittato un coraggioso “sono pronto”, sa che una guerra interna farebbe male soprattutto a lui. Il partito è ancora molto legato alla figura del premier, non è tradendolo che si potrà aprire un’èra post Bibi.

 

Israele va così verso la terza elezione in un anno, si voterà il 2 marzo e la campagna elettorale si preannuncia feroce e rivolta a una nazione che di questo gioco politico inizia a stancarsi. I sondaggi pubblicati dall’emittente Channel 13 subito dopo la notizia del dissolvimento della Knesset mostrano che la situazione non è destinata a migliorare. Likud e Kahol Lavan rimangono lì, vicini e rivali e se Netanyahu resterà a capo del suo partito la possibilità di uscire dalla paralisi della politica israeliana è la stessa dei mesi passati: inesistente. E mentre il fantasma della terza elezione si fa da parte – è già realtà – spunta quello della quarta. Soltanto una coalizione tra i due partiti principali potrebbe dare alla nazione un governo, ma Netanyahu e Gantz non vogliono cedere. Nemmeno la sicurezza è un motivo sufficientemente forte. Il mondo attorno a Israele sta diventando sempre più minaccioso e diversi analisti sono convinti che la mancanza di un governo potrebbe mettere in pericolo la nazione costretta a monitorare i propri confini – via aerea, via terra e sotto terra – e tormentata dall’imminenza di uno scontro con l’Iran. Ma il messaggio che arriva dai due partiti è che la sicurezza dello stato ebraico va avanti da sola, non dipende dalla politica. Intanto però le questioni che il blocco della Knesset ha rimandato sono tante. Ad esempio il budget, il bilancio per il 2020, non è stato approvato, Israele andrà in esercizio provvisorio senza nessun adeguamento per le nuove necessità. Altro problema è il blocco legislativo, da dicembre 2018 gli unici atti legislativi approvati sono due, tutti e due emanati per dissolvere la Knesset.

 

La politica israeliana non riesce a togliere gli occhi da Benjamin Netanyahu, il premier è stato incriminato ma potrà rimanere in carica fino a quando l’incriminazione non sarà confermata anche in appello, e più le elezioni si sommano, più il voto si sta trasformando in un referendum sul primo ministro. Anche Kahol Lavan, un partito forte, non riesce a parlare d’altro, le campagne elettorali perdono in contenuti e si concentrano su Bibi. Il premier invece è riuscito a legare il proprio destino politico a quello di Israele, è stato in grado di proiettare l’immagine di un uomo forte indispensabile per il paese che pure, nella sua storia, non ha avuto bisogno di uomini forti al comando per andare avanti. Se cado io, cadete voi, se perdo io, perdiamo tutti. Gli israeliani sanno che gli anni di Netanyahu sono stati importanti, il paese è diventato sempre più sicuro, ma una terza elezione, e chissà una quarta, sono un rischio anche per l’unità del paese. Ogni campagna elettorale diventa più aggressiva della precedente, i toni si alzano, organizzare elezioni costa, e tutto dipende da un nome. Per volere del Likud, ma anche delle opposizioni.