Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea, ieri al Parlamento europeo per presentare il Green Deal europeo (LaPresse)

Pensavi solo ai soldi, soldi

Paola Peduzzi e Micol Flammini

Tutto quel che c’è da sapere sugli investimenti europei, a partire dal Green Deal (che è lo sbarco sulla Luna dell’Ue). Poi notti insonni, orchestre che se la suonano e un mal di gola da sciopero

"Questo è lo sbarco sulla Luna della politica europea", ha detto Ursula von der Leyen davanti agli eurodeputati. “Il nostro obiettivo è riconciliare l’economia con il nostro pianeta, riconciliare il modo in cui produciamo, in cui consumiamo con il nostro pianeta e farlo funzionare nel modo migliore possibile per i nostri abitanti”. All’allunaggio del Green Deal europeo gli eurodeputati seguivano interessati. Da quelle diciotto slide sui toni del verde che la presidente della Commissione ha presentato in Parlamento iniziano le vere prove della nuova Europa, da lì i futuri scontri. Il piano, il più ambizioso dei progetti della squadra dell’ex ministro delle Difesa tedesco, include 50 misure che non sarà facile far accettare a tutti gli stati membri e che potrebbero aggravare la spaccatura tra la metà occidentale dell’Unione e quella orientale, la cui economia è rimasta molto dipendente dal carbone, oltre a inasprire tensione internazionali. La Commissione, al di là della patina di ottimismo sfoggiata ieri in Parlamento, lo sa bene. Ma quell’ottimismo ieri era d’obbligo, l’ambizione non percorre mai strade facili e inoltre, ha sottolineato la presidente, non si può nemmeno far finta di ignorare il voto che è cresciuto all’improvviso: il voto verde. “E’ il popolo europeo che ci ha chiesto di condurre azioni decisive contro i cambiamenti climatici. E’ per loro che siamo qui oggi, è per loro che abbiamo costruito un ambizioso Green Deal per l’Europa. E’ qui che diciamo ai cittadini: vi abbiamo ascoltato”. La scelta del Parlamento per presentare il progetto è stata inconsueta. La Commissione presenta le sue proposte alla stampa nei suoi locali, ma visto che questa Europa ha fatto di tutto per farci capire che è davvero cambiata, la presidente ha voluto dimostrare che è disposta a coinvolgere il Parlamento nell’elaborazione delle politiche della Commissione. E’ stato anche un modo per dimostrare agli eurodeputati, che la seguivano attenti (attenzione per le proposte e anche sui punti deboli), che la loro approvazione è fondamentale. Il Green Deal mira ad azzerare le emissioni di gas effetto serra entro il 2050 e l’iniziativa principale del progetto è una legge sul clima che verrà presentata dalla Commissione entro marzo e impegnerà il blocco a ridurre le emissioni. La legge prevede anche un piano per aumentare l’obiettivo per il 2030, finora previsto al 40 per cento, e farlo arrivare almeno al 50. I più pretenziosi azzardano un 55 per cento ma le nuove stime verranno probabilmente fissate in estate.

 

Ursula von der Leyen ha esposto i dettagli del Green Deal. Svelate le ambizioni, rimangono le battaglie (da combattere soprattutto a est)

Il progetto prevede anche un meccanismo di transizione che dovrà contribuire a finanziare la trasformazione delle economie del paese verso il verde (di questo parleremo a breve, è un nuovo tormento) e a marzo l’Unione europea presenterà una strategia industriale oltre a un nuovo piano d’azione per l’economia circolare. E’ previsto anche un un meccanismo di frontiera, una tassa che colpisce i prodotti fabbricati in paesi che hanno degli standard bassi o nulli di politiche climatiche. Il Green Deal presentato dalla von der Leyen ed esposto nel pomeriggio anche da Frans Timmermans, il vicepresidente della Commissione incaricato di seguire le politiche climatiche, prevede inoltre misure che interessano l’agricoltura, i trasporti, l’energia, i prodotti chimici, la biodiversità. Ora, dopo i discorsi, le slide e l’ambizione, restano le liti e il come evitarle. Presentarsi in Parlamento è stato un modo per prevenire le battaglie tra famiglie, che faranno pur bene alla nostra democrazia, come ci ha detto il presidente dell’EuroParlamento in un incontro qualche settimana fa, ma indeboliscono la forza della nuova Europa che si regge su equilibri delicatissimi, e in effetti la reazione è stata più entusiasta del previsto. Il discorso della von der Leyen è stato accolto positivamente dal Partito popolare europeo e anche dai liberali di Renew Europe: “Siamo al tuo fianco”, hanno detto alla presidente. I guai arrivano mentre ci si sposta a sinistra. Il Pse ha detto tutto bene, ma facciamo in modo che la transizione sia equa; il gruppo Gue/Ngl di estrema sinistra in sintonia ha chiesto che questo accordo non diventi fonte di disuguaglianze. I Verdi con la solita diffidenza e il solito puntiglio hanno detto che si prenderanno il tempo per ponderare e considerare le proposte.

 

La proposta finlandese sul budget pluriennale dell’Ue non è piaciuta a nessuno. Il fronte dei “frugali” e quello del sud

Oggi inizia il Consiglio europeo ed è qui che il Green Deal potrebbe trasformarsi in una avvelenata battaglia politica. Polonia, Repubblica ceca e Ungheria si sono rifiutate di approvare l’obiettivo delle emissioni zero per il 2050. Hanno chiesto dei forti investimenti, o ci date i soldi o salta tutto, e da ieri circola un numero magico che nelle slide di Ursula von der Leyen non si vedeva, ma che verrà annunciata probabilmente a gennaio: 100 miliardi di euro. Per agevolare la transizione i funzionari europei avevano previsto 35 miliardi da destinare per un fondo di transizione, il Just Transition Fund. Il fondo sarebbe stato trasformato in un “meccanismo di transizione” che, dice il Financial Times, è un modo brussellese per dire una serie di investimenti che arriveranno sotto forma di nuovi fondi dal bilancio dell’Ue e dai prestiti della Bei, la Banca europea per gli investimenti. A beneficiarne saranno soprattutto loro, i paesi dell’est, proprio Polonia, Repubblica ceca e Ungheria che si oppongono al Green Deal e che comunque sono i più favoriti dai fondi europei. Varsavia e Budapest hanno finora avuto un ruolo ambiguo e poco costruttivo nei confronti nell’Ue, i loro attacchi allo stato di diritto hanno anche portato all’attivazione dell’articolo 7. La Finlandia, alla presidenza del semestre europeo, aveva proposto un nuovo meccanismo di ripartizione dei fondi basato proprio sul rispetto delle regole Ue, incluso lo stato di diritto. La proposta non è passata e c’è già chi sospira pensando che ora il meccanismo di transizione fornirà ancora più soldi a paesi democraticamente deboli. Ma questo è uno sbarco sulla Luna, ha detto bene Von der Leyen, per tentarlo ci vuole ambizione.

 

Chi sono i “frugali” d’Europa. Il vertice europeo che si apre oggi era, secondo le aspettative, quello della notte in bianco: capita spesso che passi il sonno negli incontri europei, ma quando c’è da discutere di budget pluriennale – negoziare cifre e priorità di bilancio, chiudere il pacchetto del quadro finanziario dell’Ue – è automatico, si fa tardi. Invece, come ci racconta il nostro corrispondente da Bruxelles David Carretta (che di notti insonni ne ha passate infinite, e possiamo assicurare che la telefonata del giorno dopo, il venerdì mattina, è sempre colorita, diciamo) questa sera i capi di stato e di governo potrebbero andare a letto ben prima dell’alba: sul bilancio dell’Ue per il periodo 2021-2027 le posizioni sono troppo distanti. La proposta di compromesso presentata dalla Finlandia, che ha la presidenza di turno dell’Ue fino a fine anno, non è piaciuta a nessuno. L’1,07 per cento del pil come tetto massimo di impegni di spesa è a metà strada tra quello che chiedeva la Commissione (1,1 per cento) e quanto erano disposti a dare i paesi che si sono ribattezzati “frugali” (Olanda, Svezia, Danimarca e Austria) e la Germania (1 per cento del pil) perché sono loro a dover riempire il buco di bilancio creato dalla Brexit. Ai frugali il compromesso non piace, anche perché vorrebbero tagliare agricoltura e coesione per spendere di più su Green Deal, innovazione, ricerca, difesa e immigrazione, salvo pretendere di conservare sconti speciali, tipo il celebre “rebate” che negoziò Margaret Thatcher. I paesi del sud protestano per i tagli alla politica della coesione, salvo felicitarsi per la proposta della Finlandia di aumentare le risorse per l’agricoltura. I paesi dell’est si sentono minacciati dalla possibilità di un taglio dei fondi europei per chi viola i principi democratici e dello stato di diritto. Per questo, alla cena di questa sera, l’obiettivo del nuovo presidente del Consiglio europeo, il belga Charles Michel, non sarà di “chiudere un accordo”, ma di “avere un dibattito onesto e franco”, dice una fonte dell’Ue. “La proposta finlandese ci ha aiutato a identificare problemi e linee rosse”, ma “siamo solo all’inizio della fine”. Di fronte allo stallo, il negoziato sul bilancio pluriennale dovrebbe passare dalle mani della presidenza di turno dell’Ue – dal 1° gennaio tocca alla Croazia – a quelle del presidente del Consiglio europeo. Michel, per mettere un po’ di pressione sui leader, intende “presentare una data” entro cui raggiungere l’accordo. Ma la coperta è corta, la trattativa è destinata a diventare un bazar e ancora una volta l’Ue rischia di tagliare il livello di ambizione sulle politiche future per preservare le spese del passato.

 

Trump si comporta con la Wto come ha fatto con la Nato: vive gli alleati come degli sciacalli. Un po’ di numeri sulle dispute nel commercio

Dopo la Nato, la Wto. “La famiglia allargata non sta bene” è uno dei temi che affrontiamo spesso, oggi c’è una puntata dedicata alla Wto. Il presidente americano Donald Trump vede i suoi alleati, soprattutto i più stretti, come degli sciacalli che appena possono fanno razzia degli interessi americani. E’ accaduto con la Nato, accade anche con l’Organizzazione mondiale per il Commercio, la Wto. Più volte, Trump ha detto che la Wto si “approfitta” dell’America e tutela tutti, tranne l’America. Per questo ha deciso di sabotare l’Organizzazione dal suo interno: ha bloccato la nomina dei nuovi membri della Corte che decide sulle controversie internazionali tra gli stati (164) che fanno parte della Wto. La Corte è composta da sette giudici, ma può continuare a operare anche se i giudici sono soltanto tre: se sono meno, la Corte non può fare nulla. Da tempo, quattro posizioni di giudici sono vacanti, e per essere riempite è necessario il consenso di tutti gli stati membri. Finora, l’Amministrazione Trump non ha voluto fare le sostituzioni, ma la Corte ha potuto continuare il suo lavoro – che è importantissimo: è l’arbitro internazionale delle dispute commerciali tra i paesi – con i tre giudici rimasti. Ma all’inizio di questa settimana, è scaduto il mandato di due dei tre giudici rimasti, e quindi la Corte rischia di bloccarsi. In realtà, i giudici in scadenza possono portare a termine le cause di cui stanno già discutendo, quindi una parte dei contenziosi aperti potrebbe arrivare a una decisione finale. Ma per quelle che arriveranno? In realtà Trump si comporta come se la Wto già non esistesse, come dimostra la sua strategia dei dazi (le minacce arrivano anche all’Italia). I sostenitori del boicottaggio di Trump concordano sul fatto che la Wto, che è stata fondata nel 1995, non abbia saputo adattarsi alle realtà nuove delle relazioni commerciali internazionali: in particolare l’arrivo della Cina, che conserva lo status di paese in via di sviluppo (e lo stato cinese può dare sussidi alle sue imprese che non sono ammessi in molti altri paesi, falsando la competizione mondiale) pur essendo la seconda potenza economica globale. Esattamente come accade con la Nato, anche l’Amministrazione Obama era stata molto critica nei confronti della Wto e del suo funzionamento. I dati storici dimostrano che non c’è alcuno svantaggio per l’America dal punto di vista delle dispute, cioè del lavoro della Corte interna: la percentuale di contenziosi vinti dall’America è la più alta di tutti gli altri paesi. Il problema è il funzionamento stesso della Wto, la sua capacità di governare il commercio globale: anche in questo caso, il parallelismo con la Nato è perfetto, è una questione di identità e di obiettivi, più che di procedure. A che cosa serve oggi la Wto? E come con la Nato, l’approccio può essere di due tipi: una riforma interna voluta dai paesi che animano la Wto, o uno scardinamento delle regole multilaterali su cui si fondano le relazioni internazionali. Che Trump abbia scelto la seconda strada non è sorprendente: pericoloso semmai, questo sì.

 

Suona l’orchestra. C’è parecchio nervosismo in giro per l’Europa, forse non più di quello solito, ma certo è più visibile. Martedì se n’è avuto un assaggio quando la nostra bolla tuittarola è stata colpita dalla tempesta di Zoltán Kovács, che è il capo della comunicazione del premier ungherese Viktor Orbán, oltre che uno degli uomini meno diplomatici che girano per Bruxelles. Martedì c’è stato un incontro di due ore del Consiglio per gli Affari generali incentrato sull’articolo 7, cioè sulla procedura disciplinare nei confronti dell’Ungheria a causa delle violazioni dello stato di diritto. Kovács, che faceva parte della delegazione ungherese, ha deciso di raccontare in diretta quel che stava avvenendo (i giornalisti non c’erano), con una tweetstorm che potrebbe essere titolata così: quel che sta avvenendo qui dentro è ridicolo, parola del portavoce di Orbán. Kovács sostiene che sono state presentate “questioni ritrite che sono già state risolte” e che invece si è deciso di “maltrattare tutte le regole procedurali” esistenti, cioè che la discussione non è stata pertinente e che molti stati vivono nell’ipocrisia più totale, se non nell’ignoranza (ce n’è anche per l’Italia e per il suo rappresentante, Enzo Amendola: “L’Italia esprime preoccupazione sulla legislazione omnibus, ancora una volta un argomento che non fa parte della procedura ufficiale”, ha tuittato Kovács). Ovviamente tutto questo non sarebbe mai successo se questi ministri e i loro paesi non fossero stati abbindolati (o peggio: finanziati) dal più grande cospiratore antiungherese che c’è al mondo: sì, lui, George Soros. Kovács ha postato la prova “di come opera la #SorosOrchestra”: una foto che ritrae il filantropo ungherese Soros assieme a Vera Jourová, vicepresidente ceca della Commissione europea che si occupa di Valori e Trasparenza. Kovács si è sentito molto orgoglioso dell’hashtag dell’orchestra di Soros e l’ha usato spesso, condendolo anche con altri: notevole è quello in cui dice che gli europei non guardano mai i fatti, solo l’Ungheria lo fa. Molti esponenti europei – in particolare i finlandesi – hanno risposto male a Kovács, e gli hanno detto che è patetico. Ieri il portavoce del governo ungherese ha sintetizzato tutto in un post su abouthungary.hu in cui ridice che sono gli europei che non rispettano le regole, non gli ungheresi, a dimostrazione (l’ennesima) del fatto che l’orchestra di Orbán se la suona e se la canta.

 

Il governo francese ha presentato la riforma presidenziale, un sindacato amico se l’è presa. L’appuntamento è per il 17

64 anni, e un collo alto. Ieri il governo francese ha delineato i dettagli della riforma delle pensioni contro cui protestano sindacati, professionisti e cittadini. Il primo ministro, Edouard Philippe, ha detto di voler riscrivere il patto generazionale che tiene insieme la Francia: è questa l’ispirazione della riforma, che semplifica il sistema e lo porta da 42 regimi diversi per le differenti categorie a uno soltanto, universale. I punti principali: pensione minima garantita a mille euro e “85 per cento del salario minimo”, età legale a 62 anni, ma con la previsione di “un’età di equilibrio” fissata a 64 anni che implica “un sistema di bonus-malus”, “punti supplementari dal primo figlio” e aumenti per “genitori di famiglie numerose”. Chi è nato prima del 1975 non sarà coinvolto dalla riforma, e il cambiamento ci sarà nel 2037, cioè quando raggiungeranno i 62 anni quelli nati nel 1975. Chi entrerà nel mercato del lavoro nel 2022, quindi i più giovani, saranno invece soggetti a questo nuovo sistema pensionistico universale. Ma il punto più controverso, che ha scatenato la reazione del sindacato che non aveva partecipato agli scioperi e che anzi aveva difeso la riforma, il Cfdt guidato da Laurent Berger, è quello dell’età di equilibrio su cui poggia la riforma, e che sarà considerata l’età di riferimento a partire dal 2027: i 64 anni. Per Berger l’età d’equilibrio “sfonda una linea rossa” invalicabile, ed è per questo che è stato chiamato un altro, enorme sciopero per il 17 dicembre. L’opposizione di Berger ha fatto molto rumore perché potrebbe segnare un cambiamento importante: gli scioperi degli ultimi due giorni sono stati molto più contenuti rispetto a quello di giovedì scorso, gli stessi sindacati più radicali – che vogliono il ritiro completo della riforma – si erano mostrati un po’ delusi. Che succede se invece ora la contestazione è di tutti, proprio quando il governo si è mostrato comunque conciliante su molti punti, in particolare sui tempi di applicazione della riforma? Non si sa, si sa solo che le piazze francesi hanno questa caratteristica: sembrano domabili ma poi, d’un tratto, non lo sono più. Emmanuel Macron ne è consapevole, ha una certa esperienza con le piazze focose, e per questo ha cercato di muoversi con estrema cautela, anche se molti gli rimproverano di non essere stato abbastanza coinvolgente nei mesi scorsi: i grand debats dopo i gilet gialli avevano funzionato, avrebbe dovuto farli anche con la riforma del sistema previdenziale.

 

A proposito di Macron. Avrete visto la foto in cui il presidente è in una conferenza stampa con addosso una dolcevita. Scandalo. Mai vista prima. Immaginate in Italia quel collo alto che effetto ha avuto dopo che c’è stata la svolta esistenzialista in dolcevita e velluto di Matteo Salvini. Ci sentiamo di potervi rassicurare: nessuna svolta, nessun esistenzialismo, nessuna emulazione. Macron era malato, ed essendo diligente si è coperto la gola: a occhio la voce ora gli serve.

 

(ha collaborato David Carretta)