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Bloomberg e il Cav.

Giuliano Ferrara

La corsa dell'ex sindaco di New York segna la fine di una guerra culturale, su politica e conflitto di interessi. E abbiamo vinto noi, i liberali

La candidatura di Michael Bloomberg è una bomba, non perché possa infine davvero vincere (questo si vedrà). E’ una bomba perché pone formalmente e clamorosamente fine a una guerra culturale e fa del nostro stile, del nostro gusto, delle nostre analisi sulfuree il vincitore assoluto della gara. Per vent’anni, sotto l’ombrello di Berlusconi politico e imprenditore mediatico, abbiamo sostenuto con variazioni sempre uno stesso spettro di temi: il conflitto potenziale di interessi in politica non esiste, soldi e potere della comunicazione aiutano ma non sono decisivi per determinare la natura del potere in democrazia, i giornalisti possono essere seri, responsabili, e culturalmente e moralmente liberi, ma non sono indipendenti dai loro editori.

 

Bloomberg è il nono nella classifica dei più ricchi del mondo, eppure nessuno oggi scommetterebbe con leggerezza sul suo successo elettorale il prossimo novembre negli Stati Uniti. E’ il proprietario di una media company di portata mondiale, ma non c’è modo di impedirgli l’esercizio del diritto politico di essere eletto al vertice dello stato. I giornalisti del gruppo Bloomberg sono oggi diretti dall’ex direttore dell’Economist, John Micklethwaith, uomo di mondo che mise in copertina, nel segno del conflitto di interessi del nostro media tycoon, un famoso titolo che tutti ricordano: Why Silvio Berlusconi is unfit to lead Italy (perché Berlusconi non ha i titoli per guidare l’Italia). L’articolo era di Bill Emmott, che come donneur de leçons non è secondo a nessuno.

 

Per anni abbiamo incrociato le spade con i guru del giornalismo anglosferico e europeo, fino a stampare un Foglio in edizione inglese per spiegarci meglio e fare la nostra lezioncina in lingua originale, e derrate di articoli, inchieste, sfottò, corsivi, editoriali furono dedicati a argomentare contro l’ipocrisia e l’inverisimiglianza del conflitto di interessi, specie a sfondo mediatico. Il capitalismo è un intreccio inestricabile e non regolamentabile di conflitti di interesse potenziali che non annullano libertà di mercato e concorrenza, e possono essere normati soltanto in forma assai parziale e selettiva. Il ruolo dei media può essere pestifero per l’informazione politica, ma non ha alternative, e l’informazione corretta è una variante totalitaria del politicamente corretto, un imbrigliamento da evitare con ogni scrupolo (a parte le normative antitrust). La conquista dello spazio pubblico per le proprie idee e programmi, per le vanità e le influenze che si fissano in discorso e immagine, appartiene da sempre alla natura essenziale del potere: può essere perseguita in un contesto aperto e chiaro oppure con metodi e legami sottopelle, ma la sostanza del fenomeno non cambia. E Bloomberg, nei suoi dodici anni di sindaco a New York, fu un caso esemplare da noi sempre richiamato come la plateale smentita dei moralismi e dei propagandismi a senso unico dell’antiberlusconismo da par condicio (altra misura che gli americani non si sognano nemmeno di introdurre nel sistema): Bloomberg era il capo, con notevolissimi poteri, della città della finanza e di Wall Street, e contemporaneamente il titolare di un’impresa di informazione, specie finanziaria, vasta e solida, che si sovrapponeva perfettamente alle sue funzioni pubbliche ma nessuno si sognò alla fine di attaccare con gli argomenti dedicati, in lingua coloniale, alla lontana Italia.

 

Micklethwaith oggi con un comunicato promette che l’informazione di cui ha la tutela per conto del candidato Bloomberg sarà esaustiva e completa, avverte che non farà inchieste nel profondo riguardanti il profilo del candidato-padrone (oops!), e se ne lava le mani senza neanche osare di pensare a una copertina come: Why Bloomberg is unfit to lead the United States. D’altra parte fino ad ora nessuno glielo chiede.

  

Eppure non molto tempo fa, come recava il New York Times di ieri l’altro, Bloomberg aveva dichiarato che non è il tipo da sopportare che professionisti pagati da lui gli facciano le pulci in casa, papale papale. Tutto chiaro, tutto trasparente, e tutto rovesciato in etica e in logica rispetto al facilismo della battaglia contro il conflitto di interessi berlusconiano e per la cosiddetta indipendenza dei giornalisti, notoriamente dipendenti dalle aziende editoriali che pagano i loro salari e i loro contributi, e seri responsabili liberi – eventualmente – solo a loro spese e per conto del loro carattere (che non è un particolare da buttar via).

  

D’altra parte se dopo tante chiacchiere in un quarto di secolo nessuno ha licenziato un testo proibizionista sul conflitto di interessi potenziale, e mediatico, limitandosi la legge in vigore a regole procedurali giuste ma ininfluenti sulla sostanza del conflitto stesso, una ragione ci sarà, e non è come si vede una ragione soltanto italiana.

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  • Giuliano Ferrara Fondatore
  • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.