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La strada difficile della Grande coalizione in Spagna

Guido De Franceschi

Dopo le elezioni c’è una sola soluzione ragionevole al blocco politico. È pure quella più irraggiungibile

Milano. Nel Parlamento spagnolo fa il suo esordio, con due deputati, la Cup (la Candidatura d’unitat popular), un movimento catalano anticapitalista, anarcoide e indipendentista. Questo non è certo il dato più rilevante delle quarte elezioni politiche in quattro anni, eppure lo slogan con cui la Cup si è presentata con un certo successo agli elettori, per la sua prima avventura nella nemica Madrid, racconta bene il risultato complessivo del voto di domenica scorsa: “Ingovernables”. Infatti, con i numeri usciti dalle urne, il nuovo Parlamento appare così ingovernabile che l’unica via verso un esecutivo sembrerebbe essere una Grande coalizione. Se solo non fosse che, in Spagna, il concetto di Grande coalizione è un tabù.

 

In Spagna, il socialista Pedro Sánchez, dopo aver vinto le elezioni ad aprile, ha forzato un ritorno al voto per cercare una maggioranza più comoda. Ma, pur vincendo un’altra volta, ha perso tre deputati. E, intorno a lui, ha visto indebolirsi gli altri partiti di sinistra, implodere il centro (Ciudadanos), esplodere i sovranisti (Vox), crescere il Partito popolare e rafforzarsi una decina di movimenti autonomisti e indipendentisti. La migliore sintesi è di Fernando González Urbaneja, sul quotidiano online Republica: “La fetta di pane è caduta sul lato imburrato”. Infatti se nei mesi scorsi la costruzione di una maggioranza, aggregando intorno al Psoe soci piccoli e microscopici, era sembrata troppo difficile, oggi la ricerca in Parlamento dei voti necessari passerebbe per funambolismi ancora più indicibili.

 

“Dai, basta, ci vuole una vera coalizione”, si legge da molte parti. Da lontano, sembra in effetti l’unica soluzione razionale, benché la Spagna, nonostante qualche recente tentativo, non abbia mai avuto un governo condiviso. Le cose però si complicano, e molto, se si considera che oggi avrebbe la maggioranza solo una grande coalizione tra Psoe e Pp. Cioè, nella testa di ogni spagnolo, un accordo tra Real Madrid e Barcellona, una cosa che, di primo (e di secondo e di terzo…) acchito, appare impossibile e contronatura – una “cosa” nell’accezione horror.

 

Sì, è il lascito della Guerra civil, quella divisione tra le due Spagne – una roja e l’altra azul – che ha resistito alla transizione democratica e su cui si esercita ogni narrazione delle pulsioni profonde iberiche. Ma c’entra anche un altro fatto: in Spagna il bipartitismo è stato, e resta, una cosa seria e, seppur ammaccato, ha resistito più che altrove proprio perché i leader del Psoe e del Pp si sono sempre sentiti, e si sentono ancora, inderogabilmente alternativi l’uno all’altro, e si percepiscono irriducibilmente come il capo del governo (non di coalizione) o il capo dell’opposizione.

  

Profanare le tradizioni prepolitiche e politiche forse non è impossibile – e gli ex premier Mariano Rajoy e Felipe González, nientemeno, hanno timidamente alluso all’ipotesi di infrangere qualche tabù nel dialogo tra Psoe e Pp. Ma c’è un altro problema contingente. Santiago Abascal ha condotto il suo partito Vox dallo 0,2 al 15 per cento in tre anni vantandosi di essere “senza complessi” e definendo il Pp “derechita cobarde”, cioè destruccia codarda. L’ex premier ed ex leader del Pp José María Aznar gli ha risposto, fiammeggiando dagli occhi: “A me nessuno, guardandomi in faccia, viene a dire ‘destruccia codarda’, perché non reggerebbe il mio sguardo”. Vero. Ma l’attuale leader del Pp, Pablo Casado, non è Aznar. E quindi come potrebbe, dopo che Vox ha addirittura superato il Pp in alcuni suoi feudi, appoggiare i rojos del Psoe che hanno sì rivinto le elezioni, ma con lo slancio di Pirro?

 

Rimarrebbe la carta dell’astensione, grazie a cui in Spagna sono nati longevi governi di minoranza. Ma ci sono due ostacoli.

 

Primo: quando nel 2016 il popolare Rajoy, vincitore delle elezioni senza maggioranza, chiese l’astensione al Psoe e il Psoe decise di concedergliela (primo e unico caso in cui uno dei due grandi partiti si è astenuto a vantaggio dell’altro), l’allora leader dei socialisti, un certo Pedro Sánchez, che aveva sostenuto il “no” all’astensione, si dimise da segretario e da deputato, salì sulla sua Peugeot 407, spiegò in ogni angolo di Spagna che per lui “no è no”, si ripresentò alle primarie del Psoe e le vinse, per poi vincere, male o bene, anche due elezioni consecutive (l’ultima l’altro ieri).

 

Secondo: ora al Psoe non basterebbe aritmeticamente neanche un’astensione congiunta del Pp e di Ciudadanos.

 

Comunque, su molti giornali spagnoli, si legge la locuzione “Grande coalizione”. È una novità e una notizia. Resta da registrare che sono suppergiù gli stessi giornali che ancora qualche mese fa, peraltro del tutto comprensibilmente, vaticinavano grandi orizzonti per il moderato e ragionevole Albert Rivera, che, povero lui, ha trascinato Ciudadanos in una delle più catastrofiche disfatte della recente storia politica europea.

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