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Il nervosismo violento di Hezbollah

Redazione

Il premier libanese Hariri si dimette. Il Partito di Dio vuole rimanere al potere

Tredici giorni di protesta hanno funzionato in Libano e a raccontarlo non sono soltanto le dimissioni di martedì del primo ministro, Saad Hariri. E’ soprattutto il violento nervosismo di Hezbollah, il Partito di Dio e milizia sciita che fa parte del governo e che al governo vuole rimanere. Le dimissioni del premier sono arrivate dopo che i sostenitori del movimento sciita hanno attaccato in camicia nera i manifestanti nella piazza di Beirut, fortunatamente ancora poco popolata in attesa della protesta serale. La mossa di Hariri, suggellata da una celebre frase del padre, l’ex premier Rafiq ucciso nel 2005 – “Nessuno è più grande del suo paese” – va nella direzione delle rivendicazioni della piazza e contro i suoi principali alleati di governo: contro il presidente cristiano Michel Aoun; contro Gebran Bassil, ministro degli Esteri che non lascia il suo posto nonostante sia obiettivo degli insulti più virulenti della piazza; contro il segretario generale del Partito di Dio, Hassan Nasrallah, che ripete da giorni il suo ritornello: il governo resta, tutto intero.

 

 

Perché senza i soldi dell’alleato iraniano affaticato dalle sanzioni americane, il potere di Hezbollah risiede ora soprattutto nei suoi seggi in Parlamento. Ed è il Parlamento che, dopo consultazioni, nominerà un nuovo premier. Difficile però che i partiti tradizionali, guardiani del confessionalismo in affanno davanti alla contestazione che mette a rischio la loro legittimità, riescano a trovare unità nell’emergenza. Hariri potrebbe essere un candidato, ma forse soltanto in cambio di un esecutivo tecnico. Lo stallo – probabile – potrebbe significare che il premier uscente resti a sbrigare gli affari di routine, senza però i poteri e il peso politico per prendersi al più presto cura della devastante situazione economica. Il peggiore nemico del Libano oggi ha un nome: è la svalutazione della moneta nazionale, capace di portare a un dissenso molto più irrequieto.