Trump ha tradito tutti. Anche Israele ora si chiede: e se dopo i curdi i prossimi fossimo noi?
Per lo stato ebraico il presidente americano è diventato inaffidabile e Netanyahu ha ricordato la regola base: dovremo farcela da soli. Una coincidenza tra impeachment e Yom Kippur
Roma. Il tradimento all’Europa è arrivato presto, i dazi, le accuse ai paesi membri della Nato di essere free riders. Dopotutto che tra il presidente americano e alcuni leader europei, quelli europeisti, non ci sarebbe stata una grande simpatia, si sapeva da subito, ma Trump ha portato gli Stati Uniti fuori dagli affari europei, anzi contro e questo, forse, è stato il suo primo tradimento internazionale. Quello ai curdi è stato un tradimento ancora più forte, perché il presidente americano ha abbandonato i combattenti del Rojava dopo la vittoria con lo Stato islamico.
Il brusco ordine del capo della Casa Bianca di ritirare le truppe permettendo alla Turchia di attaccare degli alleati americani ha posto un altro dei suoi alleati di sempre, Israele, di fronte a una domanda: e se i prossimi fossimo noi? Shimon Scheffer, giornalista di Yediot Ahronot, uno dei giornali più diffusi nel paese, ha scritto che la decisione di Trump è arrivata come una pugnalata alla schiena per Israele. Non perché la sorte del paese dipenda dalla Turchia o dalla Siria, ma perché quel permesso concesso con leggerezza al presidente Recep Tayyip Erdogan è il segnale di un atteggiamento che mostra il capo della Casa Bianca in tutta la sua inaffidabilità. “La conclusione che ne traiamo – scrive Scheffer – è inequivocabile: Trump è diventato inaffidabile per Israele. Non possiamo più fidarci”.
Il premier Benjamin Netanyahu ha creduto nell’Amministrazione americana, alleata da sempre dello stato ebraico, e aveva riposto grandi speranze in Trump anche nel confronto con l’Iran. La decisione di ritirarsi dal trattato sul nucleare, firmato da Barack Obama nel 2015, era parsa a Netanyahu un segnale di impegno, il fatto che gli Stati Uniti iniziassero a imporre sanzioni economiche a Teheran sembrava un’ulteriore prova di credibilità e le minacce di ritorsioni nel caso in cui l’Iran avesse fatto ricorso alla violenza parevano una garanzia. Ma nel tempo gli israeliani si sono accorti che la Casa Bianca di Donald Trump non è così affidabile. L’Amministrazione Trump non ha reagito con la forza sperata agli attacchi ripetuti dell’Iran contro le petroliere e contro i pozzi di petrolio sauditi. L’apertura di Trump a dei prossimi colloqui con l’Iran ha rafforzato l’idea che l’impegno sperato in realtà non esiste, anzi, il presidente americano vuole il contrario, andare via dal medio oriente. E dopo il ritiro delle truppe dal territorio curdo, la domande in Israele inizia a farsi martellante: e se i prossimi fossimo noi? Israele è un alleato non facile da tradire per gli Stati Uniti, ma il trumpismo internazionale ha mostrato il lato finora inedito della politica estera americana.
Israele è convinta che Teheran potrebbe colpire entro due mesi, ha detto l’analista Ofer Zalzberg al New York Times. Il paese è costantemente pronto, ma ora non sa se in caso di un attacco potrà contare sull’aiuto degli Stati Uniti e inoltre la mossa di Trump in Siria non ha soltanto mostrato agli israeliani l’inaffidabilità del presidente americano, ma l’ha mostrata anche a Teheran, che potrebbe ora anche sentirsi incoraggiata ad attaccare.
Se mancano gli Stati Uniti, scivola via anche la possibilità di far avanzare un processo di pace tra israeliani e palestinesi. Se gli Stati Uniti smettono di essere forti, Israele si sente più in pericolo.
Netanyahu aveva accolto con favore l’arrivo di Trump alla Casa Bianca, aveva visto nel ritiro dal patto iraniano, nella scelta di riconoscere Gerusalemme come capitale dello stato ebraico e la sua sovranità sulle alture del Golan la centralità di Israele nella politica americana. Ma la politica estera americana manca ormai di centralità e il ritiro dal nord della Siria ha fatto ammettere anche al premier israeliano che qualcosa sta cambiando e, senza commentare direttamente la decisione del presidente americano, al coro di analisti che continuano a ripetere che quel vuoto lasciato dagli Stati Uniti verrà riempito da diverse forze tutte nemiche, ha risposto che Israele ce la farà da sola, sempre. Intanto Trump non è più intoccabile in Israele e nemmeno all’interno del Likud, e quei cartelloni elettorali che mostravano Netanyahu stringere la mano al presidente americano oggi risulterebbero più dannosi che altro a livello elettorale.
Martedì, mentre la Turchia invadeva il nord della Siria, lo stato ebraico celebrava lo Yom Kippur, in cui non soltanto ricorre la giornata dell’espiazione ma si ricorda anche la guerra del 1973. In occasione delle commemorazioni nel cimitero nazionale del Monte Herzl di Gerusalemme Netanyahu ha detto: “Come nel 1973, oggi apprezziamo molto l’importante sostegno degli Stati Uniti. Allo stesso tempo, ricordiamo e attuiamo sempre la regola di base che ci guida: Israele si proteggerà da solo, contro ogni minaccia”.
Lo Yom Kippur ha offerto uno spunto di riflessione in più per gli analisti, Michael Oren, ex ambasciatore israeliano durante l’Amministrazione Obama, ha ricordato al New York Times che quando lo stato ebraico si rivolse agli Stati Uniti per quella guerra, il presidente Richard Nixon era indagato per lo scandalo Watergate che portò all’impeachment e i nemici di Israele lo sapevano. Ora c’è un altro presidente, un altro impeachment e lo stato ebraico teme sempre di più un’altra guerra. Se i curdi sono stati traditi, si chiedono gli israeliani, i prossimi potremmo essere noi?
L'editoriale dell'elefantino