António Costa (foto LaPresse)

Cosa dimenticano le sinistre quando elogiano il “modello Costa”

Claudio Cerasa

A Lisbona il primo ministro è rigorista, nemico del debito, amico della flessibilità, fan di Macron

Nella tipica foga italiana di trasformare il risultato di ogni elezione di un paese straniero nella dimostrazione plastica dell’indiscutibile bontà delle proprie idee politiche, la vittoria in Portogallo del socialista António Costa, di due giorni fa, è stata presentata dall’intero arco costituzionale delle sinistre italiane come il simbolo evidente di una grande riscossa delle forze progressiste intenzionate a lottare contro l’Europa del rigore, contro le politiche dell’austerità e contro il famigerato modello Macron.

  

 

Diversi esponenti politici del nostro paese hanno detto che il metodo Costa “è una speranza per l’Europa” (Andrea Orlando), hanno ricordato che il voto portoghese “dà forza a una nuova Europa più giusta, più verde e competitiva” (Nicola Zingaretti) e hanno ribadito che grazie alla vittoria del socialista portoghese è finalmente chiaro che “un paese cresce di più se si impegna con coraggio nella lotta alle diseguaglianze” (Roberto Speranza). Quello che il fronte progressista entusiasta per la vittoria di Costa ha scelto non casualmente di rimuovere dal dibattito pubblico è che il modello Costa è sì un modello per le sinistre d’Europa ma lo è per le ragioni che pochi esponenti progressisti sarebbero disposti a riconoscere di fronte a una telecamera di un qualsiasi talk-show.

 

 

Quello che non si può dire e che invece meriterebbe di essere urlato a squarciagola è che il grande merito avuto in questi anni dal governo Costa – governo nato nel 2015 e sostenuto da due partiti di estrema sinistra, il Bloco de Esquerda e il Partito comunista portoghese, quest’ultimo nel programma elettorale aveva persino l’uscita dalla Nato e dall’euro – è aver rilanciato il proprio paese senza stravolgere le politiche rigoriste introdotte dal Portogallo durante il programma sostenuto dai finanziamenti della Troika. Tra il 2011 e il 2014 il Portogallo ha ricevuto aiuti europei pari a circa 70 miliardi di euro. E da quel momento in poi, per non perdere la fiducia riconquistata a poco a poco sui mercati internazionali, tutti coloro che hanno guidato il paese lo hanno fatto senza rinunciare mai ad adottare ogni anno robuste politiche di risanamento e senza rinunciare mai a difendere tutte le riforme che hanno progressivamente permesso al Portogallo di essere sempre più affidabile. Nel 2018, Costa ha regalato al suo paese un disavanzo di bilancio pari allo 0,5 per cento del pil, che alla fine di quest’anno dovrebbe arrivare intorno allo 0,3 per cento, il livello più basso dei 45 anni trascorsi dalla fine della dittatura, e grazie a questo trend ha permesso al paese di avere rendimenti delle obbligazioni intorno all’1,3 per cento (nel 2011 era a due cifre) e ha dato la possibilità al Portogallo attraverso politiche espansive ma non a debito di crescere più della media europea (nel 2019, il pil dovrebbe arrivare a più 1,7, contro una media europea che si aggira attorno all’1,2 per cento).

  

 

Nel fare questo, Costa ha portato avanti un’efficace spending review, ha ridotto il debito pubblico, ha utilizzato il suo tesoretto per portare avanti politiche espansive (alzare i salari) e per ridurre la leva fiscale (anche per attirare investimenti dall’estero) e ha inoltre rinunciato a intervenire su alcune riforme messe in cantiere dai governi precedenti, non ultima quella del lavoro modello Jobs Act voluta dal predecessore conservatore Pedro Passos Coelho con la quale il Portogallo aveva scelto di ridurre le protezioni dei lavoratori per dare maggiore flessibilità alle imprese. I modelli europei di Costa, come raccontato un anno fa a chi scrive durante una festa dell’Unità, non si trovano solo all’interno del Partito socialista europeo ma sono anche altrove: “Sull’Europa e sull’economia Macron è dalla nostra parte e ha la stessa visione che abbiamo noi socialisti e socialdemocratici. Lo è anche Tsipras ma lo è anche la signora Merkel che su alcuni argomenti ha la nostra stessa posizione”.

 

Un socialista che governa in nome del rigore, che non disprezza Angela Merkel, che considera Emmanuel Macron un modello, che abbassa il debito pubblico, che non rinnega le riforme del lavoro modello Jobs Act, che non aumenta il deficit, che considera l’affidabilità dei conti la via d’accesso più importante per regalare stabilità al proprio paese e che dimostra che non è vero che un paese per crescere deve combattere le disuguaglianze ma che non si possono combattere le diseguaglianze se prima non ci si occupa di come crescere. A essere un modello, Costa, è un modello. Ma lo è per le ragioni che buona parte della sinistra forse non avrà il coraggio di ammettere mai.

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.