Il leader del Labour inglese, Jeremy Corbyn, alla conferenza di partito a Brighton. Lo slogan dell'incontro annuale era: "People before privilege" (foto LaPresse)

L'infelicità in formato Labour

Gregorio Sorgi

Cronache dalla conferenza di Brighton, salvata dal ritorno precipitoso ai Comuni voluto dalla Corte. La delusione tra gli stand, le lotte di potere e l’unico volto che piace un po’ a tutti

I deputati laburisti sono tornati precipitosamente a Londra alla fine della loro conferenza a Brighton e si sono ritrovati immersi in una delle serate più cupe di questa cupissima stagione della Brexit, ma già il fatto di essere lì, nei Comuni riaperti di corsa nonostante il volere del governo è stata di per sé una soddisfazione. La sentenza della Corte Suprema contro la proroga dei lavori parlamentari di Boris Johnson ha scatenato un’onda di entusiasmo tra i delegati a Brighton, che per qualche ora hanno persino messo da parte gli attriti e si sono uniti contro il nemico comune. Due attiviste di lungo corso hanno brindato alla salute di Lady Hale, l’anonima presidentessa della Corte diventata l’eroina della democrazia inglese. “E’ strano che noi socialisti ci troviamo a festeggiare per una sentenza di un’istituzione così obsoleta”, ha commentato un altro membro con una punta di ironia: “Ma di questi tempi vale tutto”. L’eurodeputata Judith Kirton-Darling, arci contraria alla Brexit e delusa dalle indecisioni della leadership di Jeremy Corbyn, ha spiegato che “in tempi difficili abbiamo bisogno di un nemico per unirci. Johnson e Dominic Cummings sono i nemici perfetti”. Per Corbyn, che ha parlato poche ore dopo la decisione dei giudici, è stato fin troppo facile aizzare la folla. Il suo discorso è iniziato con un attacco al premier Johnson (“fa parte di un’élite che disdegna la democrazia... pensano di essere nati per governare”) e la platea entusiasta si è alzata in piedi a cantare un raggelante “lock him up” – sì, lo stesso coro che intonavano i sostenitori trumpiani contro Hillary Clinton nel 2016.

 

“Resterà il ricordo di Johnson che ha violato la legge, e nessuno si ricorderà che abbiamo cercato di fare fuori il nostro vicesegretario”

Come già accaduto in passato, al Labour si presenta un’altra occasione importante per incastrare il governo conservatore sulle sue responsabilità, ma non è detto che sappia sfruttarla: la storia recente insegna che non l’ha mai fatto. Il popolo laburista è più diviso di quello che sembra. Nessun delegato osa criticare pubblicamente Corbyn, eppure una maggioranza silenziosa del Labour vive con profondo disagio le incertezze della leadership sulla Brexit e non solo. Sul lungomare di Brighton, a due passi dall’edifico dove si è tenuta la conferenza, sfilavano decine di manifestanti con magliette, bandiere e stendardi rossi con gli slogan europeisti - “Remain, Reform, Revolt”, “Labour for People’s Vote”. La loro speranza è stata disattesa per l’ennesima volta quando i delegati hanno bocciato tra mille polemiche il “Composite 13”, la mozione che avrebbe obbligato il partito a schierarsi per il remain in un eventuale secondo referendum. I membri hanno votato per alzata di mano ma il risultato è stato poco chiaro e i vertici del partito non hanno autorizzato uno scrutinio segreto. “E’ stata una scena nauseante”, dice Joseph, un delegato: “Ancora una volta chi comanda ha voluto imporre la propria linea. E’ inconcepibile che una delle scelte più importanti degli ultimi anni sia decisa in modo così poco trasparente”. Circa il 70 per cento dei membri del Labour è a favore del remain, tra cui alcuni azionisti di peso: il gruppo laburista che rappresenta le aziende (Labour for Business), il sindacato Unison, che conta 1,3 milioni di iscritti, e Momentum, la più importante organizzazione filo corbyniana. “Ma noi siamo sempre dalla parte di Jeremy, anche sulla Brexit”, ha precisato Santiago, un attivista di Momentum che ribadisce la fiducia completa verso il proprio leader: “A differenza dei Lib-dem che hanno delle proposte propagandistiche e irrealizzabili, noi cerchiamo di unire il paese. Dobbiamo prendere i voti in ogni angolo della Gran Bretagna, anche nei seggi più euroscettici”. Eppure secondo molti “la strategia dell’ambiguità costruttiva” di Corbyn sulla Brexit non sta portando da nessuna parte. “Non ha senso insistere sui consensi degli anti europeisti, che già ci vedono come un partito del remain e non ci voterebbero mai”, ha detto Hamish Sandison, il presidente di Labour for Business, durante uno degli incontri organizzati dalle tante associazioni europeiste diventate il centro della resistenza anticorbyniana. Poco dopo il discorso del leader i dissidenti si sono riuniti nell’aula di una chiesa poco distante per discutere, e criticare, la sua strategia sulla Brexit. Il palco è stato allestito davanti all’altare e a fianco del crocifisso è stato posizionato lo stendardo del gruppo organizzatore, Labour for a People’s Vote, che ha rivendicato i successi ottenuti negli ultimi tre anni. All’inizio il partito sosteneva di volere uscire dall’Ue il prima possibile e nella conferenza del 2017 i vertici si erano perfino rifiutati di discutere una mozione contro la Brexit. Nel frattempo il Labour si è avvicinato alle istanze degli europeisti e oggi il piano è quello di negoziare un accordo con l’Ue che verrà poi sottoposto a un referendum confermativo entro sei mesi. “E’ un grande passo in avanti che ripaga i nostri sforzi enormi”, ha detto Mike Buckley, il direttore di Labour for a People’s Vote: “Abbiamo fatto tanta strada, ora bisogna solo percorrere gli ultimi metri. Il partito deve promettere il remain in tutte le circostanze”. Richard Corbett, il capo delegazione laburista al Parlamento europeo, ha raccontato di avere chiesto a Corbyn di sostituire l’anno prossimo come colonna sonora che anticipa il suo discorso la canzone Jerusalem – che ha un retrogusto amaro per un partito accusato di antisemitismo – con l’Inno alla Gioia di Beethoven tanto caro agli europeisti.

 

Tuttavia, ci sono anche tanti delegati laburisti che vedono con scetticismo il People’s Vote e non è detto che cambino idea nel giro di pochi mesi. “Abbiamo già avuto un referendum, perché farne un altro”, hanno risposto con fastidio vari attivisti, generalmente i più anziani, interrogati sull’argomento. Anche il potente sindacato Unite the union, presieduto dall’ultra corbyniano Len McCluskey, resta contrario all’ipotesi e ha contribuito a fare bocciare Composite 13. “Alcune persone tra cui McCluskey hanno trasformato la Brexit in una prova di fiducia su Corbyn. Il People’s Vote viene visto come il fronte degli ex blairiani e dunque come un ostacolo alla leadership”, ha spiegato l’eurodeputato Seb Dance: “Il problema è che alcune tra le persone più vicine al leader non capiscono l’importanza dell’Unione europea. La nostra bravura è stata quella di spostare il dibattito in una direzione sempre più europeista. Qualche anno fa chi era contrario all’attivazione dell’articolo 50 veniva visto come un traditore ma nel frattempo abbiamo conquistato un successo dopo l’altro. Fino a poco fa sarebbe stato impensabile solo parlare di un sostegno al remain in un secondo referendum”.

 

In un partito così diviso solo la presenza di un nemico comune può dare vita a un fronte unito: il governo conservatore certo, ma anche il vicesegretario dissidente Tom Watson, che i corbyniani hanno cercato di rimuovere a pochi giorni dall’inizio della conferenza. Watson è il capofila dell’ala moderata, un retaggio dell’era Blair-Brown con un grande seguito tra i gruppi parlamentari – la sua corrente Future Britain Group fondata lo scorso febbraio ha messo insieme 80 deputati e 70 lord critici con l’attuale leadership. L’inattesa riapertura del Parlamento, che ha sconvolto il programma della kermesse, ha anche fatto saltare il discorso di Watson che molti delegati avevano deciso di sabotare con una contromanifestazione in piazza. “Corbyn non è perfetto, ma non sopporto gli attacchi che riceve ripetutamente dalla destra del partito su una serie di argomenti”, diceva un attivista distribuendo i volantini per “l’antiWatson rally”: “Quando ci accusano di essere degli antisemiti in realtà contestano il nostro diritto di criticare Israele, non ci consentono di esprimerci liberamente”. L’odio per Watson, considerato uno degli argini alla corbynizzazione completa del Labour, getta luce sulle tendenze più inquietanti e pericolose del popolo di Brighton. Il problema dell’antisemitismo, che tanto aveva fatto discutere nella conferenza di Liverpool dell’anno scorso, è scomparso dai radar ma potrebbe tornare a perseguitare il partito in futuro. A margine della conferenza c’è stata una manifestazione di solidarietà da parte di alcuni attivisti per Jackie Walker, espulsa dal Labour per alcuni commenti antisemiti, e celebrata come vittima di una “moderna caccia alle streghe”. Chris Williamson, espulso per le stesse ragioni, ha partecipato a un evento a margine del congresso in cui sono stati distribuiti come premio dei fumetti che il Guardian si era rifiutato di pubblicare perché considerati antisemiti. A Brighton molti attivisti girano con un cordoncino con i colori della bandiera palestinese attorno al collo con attaccato il pass per entrare alla conferenza. Alle istanze dei palestinesi è stato dedicato uno stand al piano terra, in cui erano esposti dei gadget con lo slogan “Boycott Israel” e un enorme striscione con la scritta: “Stop Arming Israel”. A pochi metri era stato allestito un altro stand per festeggiare i 60 anni della rivoluzione cubana con magliette, spille e tazzine con il volto di Che Guevara, l’anteprima di quella che potrebbe essere la politica estera di un eventuale governo Corbyn.

 

Tre mozioni sulla Brexit, due sul clima, la “ambiguità costruttiva” di Corbyn e il futuro elettorale molto incerto

Il popolo laburista si ricompatta quando c’è da combattere una battaglia identitaria contro un nemico, o su un tema da cui non ci si può tirare indietro. Ovunque nella conferenza comparivano stendardi, bandiere e gadget con gli slogan ambientalisti – “Green New Deal”, “Save the Planet”, “Cut Carbon Emissions” – e i delegati apprezzavano le parole di Greta Thunberg all’Onu. Tuttavia, quando c’è stato da presentare la mozione sul Green New Deal i sindacati hanno posto il veto sulla proposta di azzerare le emissioni di carbone entro il 2030 temendo una perdita dei posti di lavoro. I delegati hanno votato due mozioni diverse sullo stesso argomento come era già avvenuto il giorno prima sulla Brexit dov’erano state addirittura tre. L’altro tema di spicco è l’abolizione delle scuole private, un’altra battaglia identitaria “che combattiamo da 50 anni – ha detto Simon O’ Hara, capo di un’associazione a favore dell’istruzione pubblica – e che Jeremy ha finalmente messo in pratica”. La mozione approvata domenica sera rientra nella battaglia dei laburisti contro il privilegio – lo slogan della conferenza era “People before privilege” – che considerano una prerogativa dei Tories. “La scuola privata più disgustosa è Eton”, ha confidato O’Hara a proposito dell’esclusivo college diventato sinonimo dell’élite: “Il nostro primo ministro è solo un esempio dei tanti idioti che escono da quel liceo”.

 

In un partito così frammentato una delle poche voci in grado di unire è il segretario ombra alla Brexit, Keir Starmer, che è stato tra i più acclamati dalla platea e viene considerato uno dei favoriti per il dopo Corbyn. L’ex procuratore è un remainer sui generis: vuole restare nell’Unione europea a tutti i costi ma allo stesso tempo offre una sponda a chi ha votato per uscire. “Non dirò mai che hanno sbagliato”, ha affermato in un’intervista a Politico Europe: “Inizialmente ero contrario al secondo referendum, pensavo che una soft Brexit fosse il modo migliore per conciliare euroscettici ed europeisti”. Ma nel frattempo si è ricreduto – “il dibattito è diventato troppo polarizzato per restare nel mezzo” – e si è allontanato dalle posizioni di Corbyn, che resta tra i pochi a insistere con il mantra dell’ambiguità costruttiva. Oltre a Starmer, anche gli alleati del leader Emily Thornberry e in misura minore John McDonnell, ministri ombra degli Esteri e dell’Economia, si sono schierati nettamente per il remain per rimanere in sintonia con gli attivisti. La successione a Corbyn, che a maggio ha compiuto 70 anni, è un argomento di cui nessuno vuole parlare. “Sarà il nostro leader alle prossime elezioni”, assicurano tutti ma nessuno si sbilancia su ciò che succederà dopo. “Bisogna vivere alla giornata, di questi tempi cambia tutto così in fretta. Ringrazio la provvidenza che il verdetto della Corte Suprema ha unito il nostro partito che versa in uno stato pietoso”, ha detto Seb Dance sulla via del ritorno, dando l’idea del sollievo generale: “Resterà il ricordo di Boris Johnson che ha violato la legge, ma nessuno si ricorderà che solo pochi giorni prima abbiamo cercato di fare fuori il nostro vicesegretario. Finalmente possiamo mettere una pietra sopra questa orrenda conferenza di partito”.