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La cultura del sospetto applicata alla Cina. Il caso australiano di Gladys Liu

Giulia Pompili

Le critiche alla prima australiana di origini cinesi a essere stata eletta al Parlamento. Il garantismo vale anche quando c’è di mezzo Pechino

Roma. Da settimane sulle colonne politiche dei giornali australiani si parla soprattutto di una persona: Gladys Liu, la prima australiana di origini cinesi a essere stata eletta al Parlamento di Canberra lo scorso maggio. Liu fa parte del Partito liberale attualmente al governo, che da sempre ha una politica piuttosto cauta nei rapporti con la Cina – anche per controbilanciare la politica d’apertura dell’opposizione dei Labour. E’ successo però che dopo la sua elezione i media abbiano iniziato a interessarsi a questa donna, nata a Hong Kong nel 1964, che ha studiato in Australia assieme a decine di migliaia di ragazzi negli anni Ottanta per poi diventare cittadina australiana nel 1992. E alla fine qualcuno si è accorto che il nome di Liu compariva tra i membri dell’associazione Quandong chapter of the China Overseas Exchange, organizzazione di copertura del governo di Pechino per promuovere la propaganda cinese. Gladys Liu ha fatto parte dell’associazione dal 2003 al 2015, e nel 2010 aveva ottenuto addirittura un ruolo di responsabilità all’interno del comitato esecutivo. Nel 2002, un anno prima di diventare attivista dell’associazione cinese, era entrata nel Partito liberale, e poi in seguito ha tentato più volte la carriera politica, fino all’elezione di quest’anno – una vittoria a cui ha contribuito moltissimo l’enorme comunità cinese residente nella divisione dello stato di Victoria dov’è stata eletta. Quando ha iniziato a circolare la notizia, la Liu ha ammesso di aver fatto parte dell’associazione in buona fede, però circolano online delle sue interviste – una in particolare su Sky news Australia – dove fa fatica a rispondere alle domande più difficili per una persona che ha dei rapporti con l’establishment di Pechino: cosa ne pensa delle rivolte di Hong Kong? Cosa ne pensa delle rivendicazioni territoriali nel Mar cinese meridionale? Tutte questioni per le quali se si dovesse prendere una posizione, e dire per esempio “Taiwan è uno stato sovrano”, le conseguenze diplomatiche con la Cina sarebbero enormi. Anche per uno specchiato politico atlantista di ferro.

 

La vicenda di Liu è emblematica perché tocca dei temi con cui prima o poi anche noi dovremmo fare i conti. Perché lo scontro tra America e Cina, tra Alleanza atlantica e panda-huggers, i sinofili di professione, ha creato una cultura del sospetto come non si vedeva sin dai tempi della Guerra fredda. E naturalmente è facile dimostrare qualcosa, se si vuole a tutti i costi dimostrare qualcosa: la Abc australiana ricordava qualche giorno fa che quando la Liu lavorava per il governatore dello stato di Victoria, Ted Baillieu, aveva un biglietto da visita in inglese e in mandarino, e nel ruolo era scritto “capo dello staff cinese”. Ma nel paese dove l’immigrazione cinese è una parte integrante del sistema produttivo (il secondo gruppo dopo gli inglesi) e il 5,6 per cento della popolazione ha origini cinesi, i rapporti tra Canberra e Pechino sono naturali, anzi necessari. Gladys Liu, ha spiegato anche il primo ministro Scott Morrison, è una lobbysta che ha lavorato soprattutto con la comunità cinese. Se abbia violato la legge, o l’autonomia dei parlamentari, sarà l’intelligence o un processo a dirlo. Se dice cose poco convincenti saranno gli elettori a valutarlo. Ma la cultura del sospetto rende oggi chiunque una potenziale spia di Pechino.

 

In un lungo articolo pubblicato l’altro ieri sul New York Times, la corrispondente Jamie Tarabay pone la domanda che presto dovremo porci: “How Close Is Too Close to China?”. Vuol dire: quand’è che i politici smettono di essere indipendenti e sono troppo vicini alla Cina? Ma come possiamo fare politica senza avere un rapporto con la seconda economia del mondo? Non è possibile. Dopo che lo scandalo è diventato pubblico, “l’opposizione ha domandato a Gladys Liu di rinnovare la sua fedeltà all’Australia, e all’intelligence di esaminare più a fondo qualsiasi suo legame con il governo cinese”. La questione ha diviso l’opinione pubblica, c’è chi la accusa di essere una spia cinese e chi la considera vittima di una persecuzione politica. Presto anche in Europa sarà necessario trovare la linea di garanzia che permetta di avere un dialogo con la Cina e con i cinesi, sia commerciale sia culturale, senza sottovalutare le minacce e senza derogare ai nostri princìpi e valori, ma evitando che la cultura del sospetto metta tutto sempre in discussione.

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.