Pedro Sánchez (foto LaPresse)

In Spagna si vota e si rivota

Eugenio Cau

A Madrid si sceglie di ricontarsi per la seconda volta quest’anno. Le trattative fallite e la scommessa di Sánchez

Milano. Il prossimo 10 novembre in Spagna si voterà per le elezioni generali – e sarà la quarta volta in quattro anni. Martedì il re Felipe VI, al termine dell’ennesimo giro di consultazioni con i partiti, ha riconosciuto che nessun leader politico è in grado di ottenere la maggioranza nel Parlamento di Madrid. Per la seconda volta nella storia democratica spagnola, le Camere saranno sciolte prima della fine della legislatura e si terranno nuove elezioni dopo una campagna elettorale lampo. Re Felipe, capo dello stato spagnolo, ha tenuto martedì e lunedì le seste consultazioni in appena tre anni (record non invidiabile), e la sua decisione è rimasta in bilico fino all’ultimo: nuove elezioni oppure secondo incarico a Pedro Sánchez, leader del Partito socialista e presidente del governo facente funzioni, che aveva già fallito un voto di fiducia questa primavera.

 

I partiti politici hanno avuto mesi per cercare un accordo tra loro, ma a consultazioni già cominciate, lunedì, la situazione era esattamente la stessa del giorno dopo le elezioni dello scorso 28 aprile: Sánchez ha la maggioranza relativa dei seggi parlamentari ma avrebbe voluto fare un governo di minoranza monocolore, con alleanze esterne; Pablo Iglesias, leader di Unidas Podemos, ha insistito per entrare in coalizione con i socialisti e creare un governo sinistra-sinistra radicale, che tuttavia avrebbe bisogno di un pugno di voti esterni per avere la fiducia; il Partito popolare di Pablo Casado e Ciudadanos di Albert Rivera sono rimasti su posizioni di chiusura alle sinistre. Il balletto era andato avanti così per tutta l’estate, ma aveva subìto uno sconvolgimento brusco nelle ultime ore, quando Rivera, con una mossa annunciata all’ultimo in maniera teatrale e studiata, ha deciso di ripudiare una delle sue promesse elettorali più importanti (“mai con i socialisti”) per offrire a Sánchez l’astensione in sede di voto di fiducia. 

 

In cambio Rivera ha chiesto alcune condizioni durissime: reimporre l’articolo 155 della Costituzione in Catalogna se dovessero tornare venti indipendentisti (quello che mette sotto tutela il governo regionale), rompere il patto di governo tra socialisti e autonomisti nella regione della Navarra, promettere che l’esecutivo non aumenterà le tasse. Dopo l’apertura a sorpresa, in mezzo alle consultazioni i media hanno rilevato tutto un brulichìo di lettere, telefonate e comunicazioni tra Sánchez, Casado, Rivera e Iglesias, ma senza risultati: alla fine il re ha deciso che fare un governo a queste condizioni era impossibile.

 

Nelle loro dichiarazioni post consultazioni, i leader politici spagnoli hanno cominciato la gara al posizionamento elettorale. Rivera e Casado, i due esponenti del centrodestra, hanno accusato Sánchez di aver sabotato la legislatura. Da posizioni differenti, anche Pablo Iglesias di Podemos ha avanzato la stessa accusa: abbiamo trascorso mesi a fare a Sánchez proposte di governo che lui ha rifiutato, ha detto. (Anche Podemos ha rifiutato offerte di coalizione dei socialisti, e il centrodestra ha sempre giurato che non avrebbe mai sostenuto il governo). L’idea che oppositori di Sánchez martedì hanno cercato in tutti i modi di far passare è che il leader socialista abbia congiurato fin dall’inizio per andare a nuove elezioni e rafforzare la sua posizione, confortato dai sondaggi che darebbero il Partito socialista in ascesa e dalla retorica che vorrebbe Sánchez come unico baluardo di stabilità per la politica spagnola, più dei populisti di sinistra (Podemos) e dei partiti di destra che sono pronti ad allearsi anche con i neofascisti pur di ottenere il potere. Questa strategia riuscì nel 2016 al conservatore Mariano Rajoy. Sánchez è pronto a tentare la stessa mossa, e martedì dopo il suo incontro con il re ha accusato “due forze politiche conservatrici e una di sinistra di aver bloccato la formazione del governo chiesto dagli spagnoli”. Rispetto al 2016 tuttavia il rischio è maggiore: tre anni fa la ripetizione delle elezioni fu accolta dagli elettori come un’emergenza e una misura estrema, e la decisione di affidarsi al partito apparentemente più solido fu naturale. Oggi c’è il rischio che la ripetizione del voto sia vissuta come una strategia di convenienza, e gli oppositori cercheranno di accusare Sánchez di aver trascinato il paese al voto rifiutando i compromessi necessari alla formazione del governo.

 

I sondaggi danno il Partito socialista attorno al 33 per cento dei consensi, ben più del 28 ottenuto ad aprile e staccato dal Partito popolare, che con il 20 per cento sarebbe il secondo partito più votato. Anche con il 33 per cento, tuttavia, Sánchez avrebbe bisogno di una coalizione ampia per governare.

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  • Eugenio Cau
  • E’ nato a Bologna, si è laureato in Storia, fa parte della redazione del Foglio a Milano. Ha vissuto un periodo in Messico, dove ha deciso di fare il giornalista. E’ un ottimista tecnologico. Per il Foglio cura Silicio, una newsletter settimanale a tema tech, e il Foglio Innovazione, un inserto mensile in cui si parla di tecnologia e progresso. Ha una passione per la Cina e vorrebbe imparare il mandarino.