Un vecchio poster dell'ex presidente Robert Mugabe, sei anni dopo le elezioni del 2013, a Bulawayo (LaPresse)

“Compagno Bob”. Così gli utili idioti occidentali hanno sostenuto Mugabe

Giulio Meotti

Dalle nomine dell’Onu alle lauree honoris causa in Europa. Una serie di simpatizzanti di sinistra, imbecilli e altri compagni di viaggio

Roma. Ha distrutto un paese bellissimo di cui si dichiarava dio vivente: “Lo Zimbabwe è mio!”. Robert Mugabe aveva detto di voler vivere fino a cento anni. In un’intervista alla radio di stato per il suo 88esimo compleanno, Mugabe aveva affermato di essere più forte che mai: “Sono morto molte volte. E ho battuto Cristo, che è morto una volta e una volta risorto”. A 95 anni Mugabe non è riuscito a resuscitare di nuovo. Due anni fa il presidente dello Zimbabwe era stato costretto alle dimissioni dopo avere tentato di reprimere le proteste di chi chiedeva che, dopo 37 anni di dittatura ininterrotta, lasciasse. La produzione agricola dello Zimbabwe era crollata al punto in cui un terzo della popolazione aveva bisogno di cibo per sopravvivere, da tre a cinque milioni di persone (su una popolazione di sedici) erano già fuggite all’estero e il tasso di disoccupazione era del 90 percento. Come ha fatto Mugabe a durare così tempo, oltre alle torture? Anche grazie alle adulazioni di tanti utili idioti occidentali.

 

“Mugabe e altri eroi di sinistra”, titolava due anni fa Bret Stephens sul New York Times. Una serie di simpatizzanti di sinistra, imbecilli e altri compagni di viaggio. Si parte con l’ambasciatore americano all’Onu sotto il presidente Jimmy Carter, Andrew Young, che sprizzava entusiasmo per Mugabe e che lo descrisse sul Times di Londra come “così dannatamente incorruttibile” (lo Zimbabwe è fra i dieci paesi più corrotti del mondo). L’Università del Massachusetts e la Michigan State University furono tra le molte istituzioni accademiche occidentali che conferirono dottorati al sovrano dello Zimbabwe molto tempo dopo che questo aveva abbandonato qualsiasi pretesa di dominio democratico. L’onore riservatogli dall’Università del Massachusetts è particolarmente ironico, in quanto dissero che Mugabe doveva essere onorato per “il suo successo nel ricostruire l’economia del suo paese” e per “aver gettato le basi per l’armonia razziale tra neri e bianchi” (lo stesso Mugabe che proclamava “lo Zimbabwe ai neri”).

 

Mugabe era amico di alcuni fra i più potenti apparatchik del Palazzo di vetro. Come Jean Ziegler, accademico della Sorbona, svizzero, commissario speciale per il diritto al cibo, che di Mugabe disse che “ha la sua storia e la sua moralità che lo accompagnano”. Pochi mesi prima della sua uscita di scena, Mugabe era stato nominato “ambasciatore di buona volontà” dall’Organizzazione mondiale della sanità delle Nazioni Unite, fino a quando le proteste non avevano costretto il direttore generale a ripensarci. Tedros Adhanom Ghebreyesus, a capo dell’Oms, aveva affermato di essere “onorato” di essere affiancato da Mugabe, lodato per aver costruito “un paese che pone al centro la promozione della salute”. Non male per un paese dove una donna ha detto di essere sfuggita agli stupri degli scagnozzi di Mugabe solo gridando di essere malata di Aids.

 

 

Nel 2013, l’Onu tenne nello Zimbabwe una conferenza mondiale sul turismo. Nel 1994, da dittatore sanguinario, Mugabe venne insignito del titolo di cavaliere dalla casa reale d’Inghilterra. D’altronde, in una vignetta sul Times del 1988, intitolata “L’armonia modello di Mugabe”, il compagno ha in mano il ritratto di Marx e nell’altra quello della regina Elisabetta, con cui amava prendere il tè. “Dove si può trovare la retorica leninista-marxista coesistente con un settore privato così florido? Forse gli abitanti dello Zimbabwe potrebbero insegnare agli inglesi qualcosa sul pragmatismo”, scriveva il diplomatico inglese Anthony Parsons.

 

E poi lauree dall’Università di Edinburgo, ritirata quando la tragedia dello Zimbabwe divenne troppo grande per essere ignorata. Tre bachelor of science e laws dalla University of London. All’aeroporto di Glasgow venne indetto in quegli anni un boicottaggio del filosofo conservatore Roger Scruton. “Mentre Mugabe veniva onorato”, scriverà Scruton. E quando la casa reale gli ritirò il titolo, Dominic Lawson sull’Independent ebbe il coraggio di scrivere: “Non è per umiliare Mugabe che il suo cavalierato dovrebbe essere revocato, ma per porre fine alla nostra umiliazione”. E a quella di tanti imbecilli occidentali.

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  • Giulio Meotti
  • Giulio Meotti è giornalista de «Il Foglio» dal 2003. È autore di numerosi libri, fra cui Non smetteremo di danzare. Le storie mai raccontate dei martiri di Israele (Premio Capalbio); Hanno ucciso Charlie Hebdo; La fine dell’Europa (Premio Capri); Israele. L’ultimo Stato europeo; Il suicidio della cultura occidentale; La tomba di Dio; Notre Dame brucia; L’Ultimo Papa d’Occidente? e L’Europa senza ebrei.