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L'Amazzonia non è “il polmone della Terra”, non sta bruciando tutta e non è solo colpa di Bolsonaro

Piero Vietti

L’allarme sul numero degli incendi di questa estate nella foresta pluviale è fortemente esagerato: è di poco superiore alla media degli ultimi dieci anni

Roma. Con una serie di tweet feroci prima, e con alcune dichiarazioni del capo del suo staff dopo, il presidente del Brasile Jair Bolsonaro ha fatto sapere di volere rifiutare gli oltre 22 milioni di dollari promessi dal G7 per aiutare il suo paese a combattere gli incendi che stanno colpendo l’Amazzonia (salvo poi ritrattare). Bolsonaro ha attaccato Emmanuel Macron dicendo che l’obiettivo del presidente francese è in realtà quello di proteggere l’agricoltura francese dalla concorrenza brasiliana, nascondendo le sue intenzioni dietro all’idea di un alleanza dei paesi del G7 per salvare l’Amazzonia, “come se fossimo una colonia o una terra di nessuno”.

 

Da giorni assistiamo all’allarme sui roghi che stanno consumando la più nota foresta pluviale del pianeta, i social network sono invasi da immagini e numeri che raccontano il disastro ambientale in atto. Celebrità del mondo della musica e dello sport, ambientalisti, politici e attivisti vari attaccano il sovranista Bolsonaro piangendo la distruzione del “polmone del pianeta”. Cristiano Ronaldo, Madonna, Greta Thunberg e Macron hanno postato foto di foreste in fiamme che non erano l’Amazzonia (ma nessuno ha parlato di fake news pilotate per ottenere consensi), e tutti ricordano che la foresta sudamericana “produce il 20 per cento dell’ossigeno del pianeta”. Come per ogni emergenza che si rispetti, poi, “non si è mai visto nulla di tutto ciò”.

 

Non esattamente.

 

Come ha spiegato il Guardian nei giorni scorsi, ed è stato ribadito da diversi esperti, la foresta amazzonica produce meno del 6 per cento dell’ossigeno necessario alla Terra. Non solo: uno dei massimi esperti mondiali di Amazzonia e nome di punta del panel di esperti dell’Onu che studia i cambiamenti climatici, lo scienziato Dan Nepstad, ha spiegato a Forbes che “la foresta produce molto ossigeno, ma altrettanto ne producono i campi coltivati e i pascoli”. Il mondo non si sta deforestando, anzi: nella sola Europa c’è molto più verde rispetto a un secolo fa. Allo stesso modo, spiega ancora Nepstad, l’allarme sul numero degli incendi di questa estate in Amazzonia è fortemente esagerato, essendo di poco superiore alla media degli ultimi dieci anni. Anche la Nasa lo conferma: il numero degli incendi di queste settimane è in linea con la media degli ultimi quindici anni. Se si prende poi la sola zona del Rio delle Amazzoni, quella cioè prettamente brasiliana, il numero di incendi registrato al momento è inferiore a quello registrato in sei degli ultimi dieci anni nello stesso periodo.

 

Gli incendi vanno spenti, la situazione è certamente grave, ma non così diversa da quella di altre estati. Eppure la mobilitazione è globale, oltre che grossolana nei toni e nelle accuse al presidente brasiliano: sembra che da un momento all’altro la foresta amazzonica possa scomparire. Ma negli anni Novanta e fino a metà del primo decennio di questo secolo la deforestazione procedeva molto più spedita. E’ poi diminuita del 70 per cento, per crescere leggermente negli ultimi anni: a oggi l’80 per cento dell’Amazzonia è ancora lì, e comunque per il 50 per cento è protetta per legge dalla deforestazione.

 

Come per molti eventi distanti, però, è la narrazione che se ne fa che colpisce chi legge o ascolta le notizie sui roghi in Sudamerica. I media ingigantiscono, semplificano, e se possono attaccare il nemico sovranista lo fanno senza preoccuparsi di verificare tutto.

 


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Un esempio: la Bbc ha attribuito il fumo presente su San Paolo agli incendi, dimenticando che si trova a più di 3.500 km dal bacino amazzonico e che invece dal Paraguay alla costa atlantica fino a ridosso della città bruciano le stoppie delle coltivazioni. Nessun negazionismo, gli incendi ci sono e l’approccio di Bolsonaro al problema non ne facilita la soluzione. Il tic ambientalista è però un rifugio facile, tanto che non ci cascano solo i vip sui social network. Da due giorni l’Osservatore Romano dedica la sua prima pagina all’Amazzonia, facendo passare la salute della foresta pluviale come la cosa che sta più a cuore al Papa. Che all’Angelus di domenica ne ha invece appena accennato. Ma le crisi ambientali si portano troppo bene per non essere indossate.

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  • Torinese, è al Foglio dal 2007. Prima di inventarsi e curare l’inserto settimanale sportivo ha scritto (e ancora scrive) un po’ di tutto e ha seguito lo sviluppo digitale del giornale. Parafrasando José Mourinho, pensa che chi sa solo di sport non sa niente di sport. Sposato, ha tre figli. Non ha scritto nemmeno un libro.