Foto Camille Detraux via Wikimedia 

La strage di Marcinelle, tra vecchi e nuovi migranti

Paolo Riva

L'8 agosto 1956 l'incidente nella miniera belga, uno dei simboli dell’emigrazione italiana. Il progetto “The Last Miners” ha parlato con molti ex minatori emigrati, con le loro mogli e i loro figli

L’8 agosto 1956, nel sito del Bois du Cazier, a Marcinelle, in Belgio, un incidente causò la morte di 262 minatori. Le vittime erano di undici nazionalità diverse, 136 gli italiani. In quella vecchia e insicura miniera, la presenza dei nostri connazionali era così numerosa perché, un decennio prima, era stato stretto il “patto uomo-carbone”. L'allora presidente del Consiglio Alcide De Gasperi e il suo omologo belga Achille Van Acker avevano siglato un protocollo d’intesa: manodopera italiana in Vallonia e Limburgo in cambio di carbone a prezzi vantaggiosi. In dieci anni, oltre 200 mila migranti economici partirono, spinti dalla miseria e allettati da condizioni di vita e lavoro apparentemente molto favorevoli, ma in realtà estremamente dure.

  

Un simbolo strumentalizzato

Alloggi pessimi, compiti massacranti, incidenti, xenofobia e discriminazione erano il contesto all’interno del quale avvenne la strage di Marcinelle che, da allora, è diventata uno dei simboli dell’emigrazione italiana. E che ogni 8 agosto viene commemorata nell’ex miniera del Bois du Cazier, oggi sito Unesco. Durante la cerimonia dello scorso anno, il ministro degli Esteri Moavero Milanesi ha invitato a non dimenticare che “Marcinelle è una tragedia dell'immigrazione, soprattutto ora che tanti vengono in Europa”, scatenando le reazioni della Lega e di Luigi Di Maio.

  

Nel 2017, il presidente Mattarella definì l’episodio “un motivo di riflessione verso coloro che oggi cercano anche in Italia opportunità che noi trovammo in altri paesi” e anche lui venne duramente attaccato. Il ministro dell’Interno Salvini, allora all’opposizione, dichiarò che “non si possono paragonare gli italiani emigrati ai clandestini mantenuti in Italia per fare casino”.

  

È evidente che la migrazione italiana del secondo dopoguerra e quella che oggi interessa il nostro paese sono flussi diversi, avvenuti in condizioni economiche, legislative e sociali differenti. Ma è altrettanto evidente che hanno punti comuni, come le motivazioni delle partenze. La strumentalizzazione politica amplifica le prime e nega i secondi. È faziosa, ma scontata. Meno scontato, invece, è capire cosa pensano i vecchi migranti dei nuovi migranti.

  

Vecchi e nuovi migranti 

Negli ultimi anni, per il progetto The Last Miners, ho parlato con molti ex minatori italiani emigrati, con le loro mogli e i loro figli. La maggioranza del campione, che non ha pretese statistiche, tende a distanziare la propria esperienza da quella dei migranti odierni, quasi sempre identificati con i richiedenti asilo che sbarcano sulle coste del sud Italia.

  

  

C’è chi lo fa con grande trasporto, sentendosi quasi offeso dall’accostamento. C’è chi lo fa con più delicatezza, sottolineando le differenze. Alcuni ripetono gli argomenti della destra sovranista, a volte con lo stesso linguaggio violento. Dal racconto di altri emerge la sensazione che riconoscere le ragioni e le fatiche dei migranti di oggi porti quasi a sminuire le proprie, in una sorta di competizione storica. Infine, ritorna spesso l’idea che le regole imposte agli italiani, come l’obbligo di lavorare almeno un anno in miniera pena il rimpatrio, erano ingiuste, ma hanno garantito ordine e legalità. Le parole del figlio di una delle vittime di Marcinelle, in tal senso, sono una sintesi perfetta: “Noi andavamo con un contratto, andavano venduti da uno Stato. Questi vengono a rubare e ammazzare. Noi andavamo a lavorare per davvero”.

  

Fieri di esser partiti

Ovviamente, ci sono anche altre posizioni. Qualcuno parla di accoglienza citando Papa Francesco. Un ex sindacalista spiega che i belgi non volevano fare i minatori proprio come gli italiani oggi non vogliono più fare i lavori più umili o duri. E poi c’è chi si immedesima. “Siamo stati extracomunitari anche noi”, dice la moglie di un minatore di Genk. “Ora mi sento integrata, ma ne abbiamo passate”, le fa eco un’altra, che a Marcinelle porta la sua testimonianza ai visitatori. Li ammonisce così: "Mi raccomando, non fate quelle cose che noi abbiamo subìto”.

  

Le differenze, insomma, ci sono e sono marcate. Quando, però, dal commentare l’attualità ci si sposta sul piano dell’esperienza personale, le distanze si riducono e quasi tutti gli ultimi minatori concordano: non sono pentiti. Chi non è rimasto vittima degli incidenti o della silicosi, oggi, parla con orgoglio della propria scelta. Pur riconoscendo le difficoltà, le mancanze degli stati e l’assenza di diritti, rivendica la decisione di partire. E ne va fiero.

  
Fiero di essersi giocato al meglio l’opportunità di costruirsi un futuro lavorando all’estero, quella stessa opportunità che l’Italia di oggi concede a sempre meno cittadini stranieri. Secondo i dati della Fondazione Leone Moressa, infatti, lo scorso anno, il nostro paese ha concesso solo 13.877 permessi di soggiorno per motivi di lavoro, contro gli oltre 350 mila del 2010. Rispetto ai residenti, abbiamo il dato più basso di tutta l'Ue.

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