Una protesta contro il candidato alla Corte Suprema degli Stati Uniti Brett Kavanaugh a Washington (Foto LaPresse)

Il caso Kavanaugh: ecco come si inventa un mostro

La politica delle emozioni non funziona contro Trump, e il caso del giudice Kavanaugh lo dimostra

La macchina della politica opera come se la memoria non esistesse. Tutto si porta perché tutto passa e si dimentica, tirando la volata alla prossima polemica superabile. Non c’è quasi mai nessuno a prendere nota degli eventi con la dovuta calma. Il risultato è che le vicende più infiammate della politica passano lasciandosi alle spalle una traccia emotiva che più che chiarire confonde chi tenta di afferrare la realtà. La conferma del giudice della Corte suprema americana Brett Kavanaugh è un caso di scuola. Lo scorso autunno il giurista scelto da Donald Trump per rimpiazzare il pensionato Anthony Kennedy è stato al centro di una delle più violente tempeste mediatico-politiche che si ricordino, e il processo di selezione, scrutinio e infine voto conteneva tutti gli elementi più infiammabili della dialettica politica, dallo scontro sull’aborto alle molestie sessuali.

 

La nomina di Brett Kavanaugh è stata confermata dal Senato. Decisivo il voto di una donna, Susan Collins

La comparsa improvvisa di una grande accusatrice, Christine Blasey Ford, la psichiatra che diceva di essere stata vittima di un tentato stupro da parte di Kavanaugh trentasei anni prima, quando frequentavano la stessa scuola, ha trasformato un crudo scontro politico in un attacco di panico collettivo durato settimane. Alla fine di uno psicodramma che ha polarizzato l’America, e il mondo intero, dividendo la comunità dei viventi fra i complici dello stupratore e i sostenitori della vittima traumatizzata, la nomina di Kavanaugh è stata confermata dal Senato. Il voto decisivo è stato quello di una donna, Susan Collins, senatrice del Maine alla quale i suoi avversari hanno augurato le cose peggiori, innanzitutto la perdita della poltrona l’anno prossimo, ma poi anche varie malattie incurabili e la morte. Lei, in tutta risposta, ha già raccolto 6,5 milioni di dollari per finanziare la campagna elettorale, più di quanto abbia mai raggranellato nelle quattro elezioni precedenti. Ma ciò che è rimasto aggrappato alla psiche collettiva di quella circostanza è la tremenda ingiustizia commessa ai danni di una donna che in quell’aula, incalzata dai rappresentanti del patriarcato arrogante, rappresentava tutte le donne che sono state abusate e alle quali tutte le persone perbene in circolazione hanno il dovere morale di credere. In un tale contesto, chiedere prove, invocare evidenze stringenti, è di per sé un atto di malafede. La storia di Kavanaugh ha fissato un nuovo benchmark nella dinamica della resistenza contro Trump. Al prossimo scontro di simile portata, si ripartirà da quel livello di indignazione, da quella carica di disprezzo per il tiranno e la sua tiranneggiante ideologia.

 

Il giusto processo e la presunzione di innocenza, istituti fondanti della democrazia, sono stati calpestati e umiliati in nome della politica

Per fortuna durante lo svolgersi del caso Kavanaugh qualcuno che prendeva appunti c’era. Mollie Hemingway, caporedattore di Federalist, e Carrie Severino, consigliere del Judicial Crisis Network, hanno seguito il percorso giudiziario-politico senza farsi confondere dalla politica delle emozioni e hanno raccolto le loro minuziose osservazioni, corroborate da oltre un centinaio di interviste, dal presidente degli Stati Uniti in giù, per ricostruire a mente fredda quello che era successo. Il materiale è stato distillato in un libro di recente uscita intitolato “Justice on Trial: the Kavanaugh Confirmation and the Future of the Supreme Court”. Battendo a mente fredda sul tamburo dei fatti, delle prove ben documentate, le autrici devastano la versione ufficiale del processo a Kavanaugh sforzandosi di ricostruire ciò che è davvero accaduto. Che in sintesi è questo: il giusto processo e la presunzione di innocenza, istituti fondanti della democrazia, sono stati calpestati e umiliati in nome di un’animosità politica che si è propagata con una logica ricattatoria, ché chiunque abbia osato chiedere prove del misfatto è stato additato come difensore dello stupro e alleato del maschio bianco prevaricatore.

 

Il libro di Hemingway e Severino smaschera l’ipocrisia della sinistra, documentata con una ricostruzione attentissima

La storia di Hemingway e Severino parte dal principio, cioè da molto prima che emergesse l’accusa di Ford. Le autrici raccontano nel dettaglio della mobilitazione democratica attorno alla nomina trumpiana prima ancora che venisse annunciato il nome di Kavanaugh, giurista di Harvard e allievo del giudice Kennedy che si segnala per l’orientamento di conservatore moderato. Per questo Trump non lo aveva inserito nella lista originaria dei papabili per la corte – è comparso in una versione aggiornata nel 2017 – e per lo stesso motivo i conservatori più rigidi sulle questioni sociali si sono lamentati della scelta. Avrebbero voluto nomi più ortodossi. Anche i sostenitori del “prosciugamento della palude” ad opera di Trump non sono stati particolarmente felici della scelta: Kavanugh era parte della palude dell’establishment. Gli attivisti della sinistra si sono mobilitati organizzando sit-in e distribuendo materiale prima che la nomina fosse resa pubblica: i cartelli dei manifestanti avevano uno spazio bianco dove si poteva inserire qualunque nome il presidente avrebbe scelto. Ma questo era parte di un copione ampiamente noto e storicamente recitato da ambo le parti. Quando Kavanaugh è stato selezionato, la campagna già orchestrata nelle sue linee fondamentali si è soltanto dovuta orientare verso un obiettivo specifico. Nel primo giorno di audizione alla commissione giudiziaria del Senato, i membri hanno interrotto Kavanaugh 63 volte, impedendogli di rispondere compiutamente alle domande che loro stessi facevano. Sono stati arrestati settanta manifestanti che hanno tentato, con successi alterni, di interrompere o disturbare in qualche modo i lavori. Uno di loro era travestito da preservativo. I paladini della resistenza dicevano che le proteste erano spontanee, ma Hemingway e Severino dimostrano che non era così. I manifestanti arrivavano da tutto il paese, generosamente sponsorizzati da organizzazioni come la Women’s March e il Center for Popular Democracy, che si occupavano non solo di trasporto e alloggio, ma anche della copertura delle spese legali per chi veniva arrestato. Planned Parenthood ha ingaggiato degli “storytellers” da tutta America per concepire e diffondere i messaggi che poi gli attivisti ripetevano, un coro apparentemente caotico ma in realtà concepito in laboratorio e sostenuto da un’opera di fundraising a sette cifre.

 

Guidati da Kamala Harris e Cory Booker, che non volevano perdere l’occasione per mettersi in luce in previsione delle primarie democratiche, i senatori si sono appellati a cavilli e hanno chiesto più tempo per esaminare la documentazione di Kavanaugh, richiesta piuttosto assurda visto che tutti i membri democratici della commissione, a eccezione di Chris Coons, avevano già dichiarato pubblicamente che non avrebbero dato il loro voto positivo. Quando è stato palese che la mobilitazione tradizionale non avrebbe conquistato i voti repubblicani necessari per bloccare la nomina, gli avversari del presidente hanno deciso di cambiare strategia. Il sito Intercept ha pubblicato un articolo in cui sosteneva che la senatrice Dianne Feinstein, capo dei democratici in commissione, aveva ricevuto una lettera da parte di una persona che asseriva di avere subito un tentativo di stupro da parte di Kavanaugh e del suo amico Mark Judge durante una festa in una casa nella periferia di Washington quando lei aveva quindici anni e lui diciassette. L’articolo diceva anche che Feinstein non aveva messo a parte gli altri membri della commissione di questa comunicazione. BuzzFeed ha rilanciato la storia, che nel giro di poche ora è entrata nel circolo del mainstream, corredata dall’ovvio meccanismo di pressioni perché la senatrice svelasse l’identità dell’accusatrice che avrebbe potuto riuscire laddove il processo di dibattito politico aveva fallito. Feinstein non aveva fatto parola della cosa – questa la sua versione – per proteggere una vittima che sarebbe stata inevitabilmente travolta dalla tempesta mediatica, ma un mese prima di risolversi a rendere pubblico il fatto aveva messo personalmente in contatto Ford con Debra Katz, superavvocato specializzata nella difesa delle vittime di alto profilo di abusi sessuali. Esaurite tutte le altre possibilità di far naufragare Kavanaugh, Feinstein ha mandato la lettera ai colleghi della commissione, e a quel punto il caso è diventato di dominio pubblico.

 

Uno screditato azzecca-garbugli in cerca di notorietà che al tempo del caso Kavanaugh si trasforma in un idolo della sinistra

L’accusa, lacerante in questi tempi di ipersensibilità sul tema degli abusi sessuali, ha aperto le porte a molte altre accuse, tutte dimostratesi false a un primo scrutinio: non per questo i media hanno evitato di parlarne con l’urgenza allarmata di chi sta denunciando un mostro, rigorosamente senza verificare i fatti. Il New Yorker ha pubblicato la storia di una compagna di corso di Kavanaugh a Yale, secondo la quale una volta il giudice le ha mostrato le sue parti intime a una festa. La signora è arrivata a mettere insieme questo vago ricordo “sei giorni di riflessioni e di dialoghi con il suo avvocato”. Nessun altro è stato in grado di confermare il suo racconto. Una terza accusatrice si è fatta avanti tramite il suo avvocato, Michael Avenatti, con una versione completamente smentita da un testimone in un’intervista alla Nbc. Soltanto che il network per settimane ha tenuto nascosta la registrazione, per continuare ad alimentare il caso. Avenatti, già avvocato della pornostar Stormy Daniels, accusatrice di Trump, oggi è uno screditato azzecca-garbugli in cerca di notorietà finito a sua volta sotto processo, ma al tempo del caso Kavanaugh era un idolo della sinistra che addirittura millantava ambizioni presidenziali. A un certo punto, il senatore democratico Sheldon Whitehouse ha tirato fuori il racconto di una signora del Rhode Island secondo il quale qualcuno – ma non era chiaro chi – era stato stuprato da Kavanaugh e Judge durante una gita in barca nel 1985. La testimone ha ammesso di avere inventato tutto non appena l’Fbi si è messo a fare indagini. La Cnn e tutti gli altri network hanno glorificato due persone che hanno aggredito verbalmente il repubblicano nevertrumper Jeff Flake mentre prendeva l’ascensore, inchiodandolo alla sua ipocrisia, ma hanno dimenticato di dire che si trattava di attiviste di professione. L’episodio è stato presentato invece come la spontanea manifestazione della parte civile del paese.

 

In questo clima si è arrivati alla deposizione di Christine Blasey Ford, evento seguito dal paese con una carica emotiva da Super Bowl. Il senso della deposizione era suscitare una professione di fede collettiva sintetizzabile in uno slogan di tre parole: “I believe her”. Alla dottoressa Ford credeva anche Leland Keyser, l’amica di vecchia data a suo dire era presente in quella fatale serata di vari decenni fa, e dunque avrebbe potuto confermare. Ma Keyser, che pure con tutta la sua passione e la forza emotiva credeva alla versione di Ford, non ricordava nulla. Né la festa, né la casa del Maryland, né le interazioni, di qualunque natura, con Kavanaugh. Hemingway e Severino hanno scavato anche su quel fronte, scoprendo che Ford ha ricontattato via Facebook l’amica dopo almeno dieci anni di silenzio, circostanza che rende più orchestrata e meccanica una dinamica presentata all’epoca come perfettamente naturale. Nel frattempo è stata scandagliata l’agenda di Kavanaugh nei giorni della presunta violenza, dapprima alla ricerca di indizi circa la famosa festa di cui nessuno pareva ricordarsi, poi più genericamente di prove che già a diciassette anni il ragazzo era sulla strada dell’arroganza bianca, del privilegio, esagerava con il bere e usava un linguaggio sboccato, carico di riferimenti sessuali, dunque era certo che assieme ai suoi amici beoni trattasse le donne come oggetti a sua disposizione. Le indagini dell’Fbi non hanno trovato conferme riguardo agli eventi, ma le due autrici si sono prese la briga di andare a scavare nei diari dell’epoca della dottoressa Ford, contattando amici, parenti e conoscenti. Hanno scoperto che aveva la reputazione di una ragazza esagerata nel bere, nel fare festa e nell’ingigantire storie, cosa che del resto l’accomunava a qualche centinaio di milioni di adolescenti di ogni latitudine. Ma osare equiparare la credibilità dei due testimoni durante il processo della nomina era un’eresia civile.

 

Ford ha infine raccontato nuovamente in mondovisione la sua versione, e anche quella circostanza altamente mediatica è stata curata nei dettagli. Ha indossato un abito blu come quello di Anita Hill, l’assistente di Clarence Thomas che ha accusato il giudice di molestie quando è stato nominato per la Corte suprema. Per due volte, durante la tesissima interrogazione, ha detto che aveva bisogno di caffeina, e in una circostanza il suo avvocato ha aggiunto: “Un coca-cola, magari”. Dopo la pausa è comparsa sul tavolo una coca-cola, altri riferimento alla vicenda della Hill: aveva riferito che Thomas aveva fatto una battuta greve, a sfondo sessuale, a proposito di una lattina della bevanda. Più tardi, diversi staffer presenti in aula hanno sentito la senatrice Mazie Hirono congratularsi con Kamala Harris per la “grande idea” di mettere sulla scena tutti gli elementi a disposizione per richiamare il parallelo con la grande accusatrice di Thomas. Durante l’interrogazione di Kavanaugh, Hirono ha richiamato fino allo sfinimento il caso Hill. 

 
Dal libro di Hemingway e Severino emerge la descrizione di un clima in cui le elementari garanzie della giustizia saltano in nome di interessi partigiani mascherati da difesa della donna abusata e traumatizzata. Un’ipocrisia documentata con una ricostruzione attentissima sorretta da un’enorme mole di documenti. E le autrici non dimenticano che in questa storia ci sono altre donne traumatizzate di cui nessun attivista o editorialista si è preoccupato. Una venticinquenne assistente di Susan Collins è stata subissata per settimane da telefonate e messaggi di minaccia all’indirizzo della senatrice. Poi le minacce si sono rivolte a lei. Un uomo le ha augurato di essere stuprata e ingravidata mentre tornava a casa dal lavoro. La giovane non ha retto la pressione di questi attivisti che agivano in nome della dignità delle donne, e si è licenziata.