Il palazzo andato a fuoco a Kyoto in Giappone (Foto LaPresse)

Il Giappone cerca la società perfetta ma ancora una volta viene colpito al cuore

Giulia Pompili

Un uomo ha dato fuoco a un palazzo a Kyoto, e ha ucciso più di trenta persone. È il secondo caso di cronaca sanguinoso nel giro di un mese

Roma. Stamattina alle dieci e mezzo un uomo è entrato nel palazzo della Kyoto Animation, uno dei più importanti studi di animazione del mondo, ha gridato: “Morite!”, ha buttato sul pavimento della benzina e gli ha dato fuoco. I vicini hanno chiamato i soccorsi dopo aver sentito delle esplosioni. Il presunto responsabile, un uomo di quarantuno anni secondo il quotidiano Asahi, è stato trovato privo di coscienza in una strada vicino al palazzo, è stato portato in ospedale e ora è indagato. Secondo le prime ricostruzioni è questa la dinamica dell’incendio che ha ucciso almeno trentatré persone, ne ha ferite trentasei, e ha quasi distrutto l’edificio della Kyo-Ani.

 

È il secondo caso di cronaca sanguinoso, doloroso che il Giappone vive nel giro di un mese: a fine maggio a Kawasaki un uomo ha attaccato con un coltello un gruppo di studentesse a una fermata di un autobus, ha ucciso una bambina di undici anni e un padre di trentanove, e poi si è tolto la vita.

 

Nel paese in cui la criminalità è praticamente inesistente, che da secoli si impegna a rispettare l’obiettivo della società perfetta – nell’etichetta, nelle regole della collettività – certi eventi sono uno choc. Più del terremoto, più dei tifoni devastanti: per tutto ciò che la natura manda in Giappone, i giapponesi sono preparati. Ci sono decine di protocolli e di esercitazioni annuali, talvolta mensili, che ti dicono cosa devi fare quando senti una scossa, che cosa devi fare in caso di piogge intense, di venti che fanno esplodere le vetrate. Ci sono applicazioni che ti avvertono qualche secondo prima, e organizzatissimi centri di accoglienza dove nessuno si lamenta perché è la natura, appunto, e quindi va tutto bene. Ma la verità è che niente può prepararti al mistero della mente umana, che è per sua natura imprevedibile, e al male assoluto, anche ingiustificato, quello di cui è capace soltanto l’essere umano.

 

La società giapponese nelle ultime settimane è stata colpita al cuore: i bambini e la cultura – perché l’animazione qui è considerata tutt’altro che intrattenimento. Lo scorso anno, prima di entrare nella nuova èra dell’imperatore Naruhito, sono state eseguite le condanne a morte dei responsabili dell’attentato alla metropolitana di Tokyo del 20 marzo del 1995, un atto catartico che avrebbe dovuto allontanare i fantasmi di quell’evento che ha cambiato il paese. Non ha allontanato niente. La società perfetta alla quale aspira il Giappone, omogenea, produttiva, efficiente, ha i suoi coni d’ombra esattamente come tutte le altre. Non si è parlato molto di malattia mentale nei due casi di cronaca di queste settimane, perché non è considerato possibile l’atto folle, imprevedibile, che può portare alla morte di altri. Eppure il paese ha ancora un tasso di suicidi altissimo, anche se in calo. La malattia mentale è ancora un tabù, una deviazione inaccettabile rispetto al contributo che ognuno è tenuto a offrire alla società, un segno di debolezza dell’uomo incapace di controllare la propria mente. Certo, le cose stanno cambiando, anche in Giappone. Forse ancora troppo lentamente.

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.