La leader dei socialdemocratici danesi Mette Frederiksen (Foto LaPresse)

Luci e ombre del modello Frederiksen che ha vinto in Danimarca

Paola Peduzzi

Quanto successo può avere una sinistra durissima sull’immigrazione? 

Milano. Ha unito il partito, ha fatto valere il suo attivismo che sa di lealtà e di missione, ha insistito sui capisaldi storici e ha guardato analisi, sondaggi, studi, rilevazioni per scoprire che il 75 per cento degli elettori ha a cuore la sicurezza del proprio paese e vuole misure dure sull’immigrazione. Questa è la formula di Mette Frederiksen, 41 anni, leader del Partito socialdemocratico danese, vincitrice delle elezioni di mercoledì. Su di lei avrete sentito già molte cose: viene da Aalborg, la città famosa per il carnevale, per le guerre di motociclisti negli anni Novanta e per la birra più economica del paese, le piace fare le liste – che virtù invidiabile – per mettere ogni cosa al suo posto, è divorziata con due figli (come un’altra star del liberalismo europeo, la presidente slovacca Zuzana Caputova) che ha mandato alla scuola privata facendo un gran scandalo, ed è l’erede di uno dei volti più noti della socialdemocrazia scandinava, Helle Thorning-Schmidt, la premier che ha ispirato la serie tv “Borgen” e che ha fatto ingelosire addirittura Michelle Obama. La Frederiksen ha preso la guida dei socialdemocratici nel 2015, quando la Thorning-Schmidt fu sconfitta dai liberali di Lars Løkke Rasmussen, battuti mercoledì: l’alternanza, in Danimarca, funziona.

 

Quando vincono, i socialdemocratici hanno sempre un sussulto: sono stati piano piano spazzati via dalla mappa dei governi europei, ed è per questo che vediamo in giro molti articoli sulla resurrezione, una rondine che magari fa davvero primavera. Poi, dopo i festeggiamenti, iniziano le analisi: da un lato c’è la formazione del governo che in questi anni è diventata un’attività complicata e soprattutto lunga, dall’altro c’è la fatidica domanda “che sinistra vince oggi?”. La Frederiksen, che come si è capito è una donna spiccia e pragmatica, vorrebbe risolvere la prima questione in fretta, guidando un governo di minoranza, che in Danimarca non è nemmeno una novità. Ma ha un problema: il suo partito ha preso in percentuale meno voti rispetto alle ultime elezioni (dal 26 al 25,3), sono i Verdi e il Partito social-liberale che sono andati molto bene e consentono la maggioranza in Parlamento, e questi partiti non condividono affatto la politica principale della Frederiksen: quella sull’immigrazione.

 

Uno dei meriti della Frederiksen è quello di aver portato unità nel proprio partito: i media danesi ripetono con un certo sollievo che la leader socialdemocratica e probabile nuova premier gode del sostegno compatto dei socialdemocratici. Abituati a correnti e baruffe come siamo, questo è un punto di partenza importante. Poi la Frederiksen è riuscita a far suo anche quello che in realtà non lo era: la piena occupazione, un’economia sostanzialmente solida grazie anche ai liberali al governo. Ha combinato questa contingenza fortunata con la passione socialdemocratica per un welfare state equilibrato e forte, il modello nordico europeo al suo meglio. I suoi critici dicono che non ha fornito dettagli su temi cruciali, i suoi sostenitori replicano che una volta che sei riuscito a intestarti anche successi che non sono tuoi il più è fatto. La Frederiksen ha deciso invece con molta determinazione di fare un’operazione che fin qui avevamo visto soltanto nei partiti di destra: legare la sicurezza economica a quella dell’ordine pubblico e a quella dell’immigrazione.

 

In controtendenza rispetto al mainstream di sinistra, la Frederiksen vuole introdurre controlli all’ingresso dei migranti anche dal punto di visto etnico (si chiama profilazione) e detta condizioni molto restrittive per le richieste d’asilo. Il suo è più duro del modello Minniti, per intenderci. Sotto alcuni punti di vista (elettorali) la strategia ha pagato: i populisti alleati di Matteo Salvini, per dire, hanno perso molto. Ma il Partito socialdemocratico non è cresciuto e si aspettava un risultato molto più solido rispetto a quello che ha ottenuto (avrà 48 seggi su 179, il partito più grande): questo crea problemi con le alleanze e non fornisce elementi chiari sul modello di sinistra che può imporsi.

  

I segnali che arrivano in Europa sono contraddittori: il partito di maggior successo è il Psoe spagnolo, che sembra molto pragmatico e tattico, più radicale o più riformista a seconda delle esigenze. In Francia e in Germania le sinistre sono quasi annientate, anche quella radicale di Jean-Luc Mélenchon che sta considerando l’ipotesi di lasciare la politica. La sinistra britannica è perduta nell’indecisione sulla Brexit, non è paradigma di nulla da parecchio tempo, a parte i deboli “facciamo come Corbyn” che si alzano ogni tanto. L’offerta della Frederiksen in Danimarca è isolata, ma ha ribadito un tema importante: il controllo dell’immigrazione non è esclusiva della destra. Ma forse non può essere nemmeno il tema dominante di un governo di sinistra.

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  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi