La manifestazione a Lisbona in commemorazione della rivoluzione dei garofali, lo scorso 25 aprile(Foto LaPresse)

Il Portogallo va di moda

Valeria Manieri

Storia recente di un paese che ha saputo risollevarsi dall’abisso con l’austerity e che è uno degli ultimi baluardi della sinistra, favorita alle elezioni di ottobre

Il Portogallo va di moda, lo includiamo volentieri nella lista dei prossimi paesi da visitare, ci sorprende con un fascino tutt’altro che decadente. Va forte anche a Bruxelles, che lo mette in mostra volentieri come modello di austerità positiva e crescita economica. Il Portogallo funziona – per ora – ma poco o nulla sappiamo della sua politica. Nella lettura sporadica dei dati della ripresa portoghese commentatori e politici attribuiscono meriti un po’ a casaccio a governi di destra o sinistra, a seconda delle simpatie, senza uno sforzo di analisi. Un'analisi che ci indica chiaramente una cosa: la politica portoghese, in questi ultimi anni di Troika e post Troika, ha dimostrato maturità e continuità di impegno, pur nella discontinuità di governi di diverso colore. Qualità rara in Europa e inimmaginabile in Italia.

  

 

Il Portogallo ha saputo rimettersi in piedi, fare le proprie scelte, rispettarle, lasciando alle forze populiste e xenofobe uno spazio politico marginale. Non è così in altri paesi che hanno vissuto la presenza della Troika come la Grecia e non è così nemmeno nella vicina Spagna (parte dei cosiddetti Pigs) che ha vissuto turbolenze politiche importanti. Un paese che dalla rivoluzione dei garofani del 1974 in poi ha avuto fasi altalenanti e che, dopo la crisi che lo ha colpito, vive una rinascita di non univoca lettura. Dopo la crisi economico-finanziaria globale del 2008, i pesanti contraccolpi nell’avamposto atlantico europeo sono stati evidenti circa 24 mesi dopo. Infatti dal 2010 al 2013 il Portogallo ha visto una contrazione della propria economia di 6 punti percentuali e una impennata della disoccupazione oltre il 17 per cento. Allora il suo rapporto deficit/pil toccava la quasi impossibile cifra dell’11 per cento. Ormai senza scampo il Portogallo, con l’allora presidente del Consiglio Coelho salito al potere dopo la disfatta dei socialisti, si vede costretto nel 2012 a negoziare con la Troika (Fmi, Bce e Ue) un pacchetto di aiuti di circa 78 miliardi per evitare il default.

 

Il Portogallo ha saputo rimettersi in piedi, fare le proprie scelte, rispettarle, lasciando alle forze populiste uno spazio marginale

 Alla fine del 2012 il presidente del Consiglio Pedro Passos Coelho, leader di centrodestra del Partito socialdemocratico, illustra una linea di bilancio disastrosa: aumenti importanti della pressione fiscale sui redditi, aumento dell’Iva, forte contenimento della spesa pubblica, congelamento delle carriere nel pubblico, licenziamento di diversi dipendenti della pubblica amministrazione (circa 30 mila persone), aumento (da 35 a 40 ore) dell’ammontare delle ore di lavoro settimanali, ulteriori strette su stipendi e sulle ferie (un taglio di tre giorni all’anno) e un contributo speciale di solidarietà ai pensionati con reddito superiore ai 1.350 euro mensili. Il salasso va avanti senza sosta fino alla fine del 2013. Scelte impopolari che portano a manifestazioni davanti al Parlamento, che tuttavia non degenerano nella violenza.

  


Pedro Passos Coelho (penultimo a destra) a un vertice europeo del 2015


  

Ma c’è un’altra riforma che, pur tra le proteste, ha poi portato frutti importanti in Portogallo: quella del mercato del lavoro, avvenuta sempre negli anni della Troika: una maggiore flessibilità del mercato del lavoro, un taglio delle indennità di licenziamento (da 20 a 12 giorni per anno di lavoro), una contrazione del numero di mesi in cui si può beneficiare del sussidio di disoccupazione (per 18 mesi al massimo), una maggiore applicazione delle regole nelle politiche attive del lavoro per l’accettazione di nuovi impieghi per i disoccupati. Anche per le imprese private sono state varate forti facilitazioni: per chi lo necessita, 150 ore supplementari all’anno non retribuite ai dipendenti nel caso di periodi di intensa attività.

  

Attirati da una fiscalità vantaggiosa, i capitali stranieri sono rientrati nel paese in enormi quantità 

Nel maggio del 2014 il Portogallo si prende una bella soddisfazione. Con la dodicesima revisione dei conti dello stato da parte della Troika e la abituale tranche di aiuti, arriva anche la conferma da parte di Coelho e del ministro dell’Economia Portas che quello sarebbe stato l’ultimo prestito. Al “Missione compiuta!” esclamato da Portas, seguì l’annuncio del presidente del Consiglio che ribadiva l’uscita dal programma di assistenza senza piani precauzionali da parte del terzetto Fmi-Bce-Ue. I mercati avevano recuperato fiducia nel Portogallo e a testimoniarlo parlavano i dati dei tassi di interesse sui titoli di stato a dieci anni, scesi al 3,6 per cento, ben 7 punti in meno rispetto a giugno 2011, data dell’insediamento di Coelho.

 

Proprio nel 2014 inizia una lenta ma continua ripresa dell’occupazione, figlia della moderata ripartenza dell’Eurozona e di quelle dure riforme che proprio la Troika aveva richiesto: dai picchi del 17 per cento raggiunti alla fine del 2013 si cala poco a poco al 15 per cento. Il tempo tecnico di riassorbire i duri tagli nel settore pubblico, superare lo choc dei tre anni di austerity e il Portogallo inizia a mostrare all’Europa che a tutto c’è rimedio, anche alla Troika. La ripresa non è di immediata lettura, ci vorrà ancora un po’ perché le cifre inizino a dare qualche ragione alla Troika e respiro al governo di Coelho.

 

 

E così arriviamo al 2015, l’anno di una altra svolta per il Portogallo e di una nuova leadership, in realtà una buona conoscenza per la politica portoghese: Antonio Costa va al governo con un colpo da maestro. Costa è il leader del Partito socialista, amato sindaco di Lisbona fino proprio al 2015, quando lascia il suo incarico per dedicarsi alla campagna elettorale per le elezioni politiche. È è un politico di esperienza, un giurista di formazione. Quasi ininterrottamente ministro dal 1997 al 2007, ha guidato ministeri come quello degli Affari parlamentari, della Giustizia, della Amministrazione interna, con una breve parentesi da europarlamentare e una esperienza come uno dei vicepresidenti del Parlamento europeo. La campagna elettorale tuttavia non basta. Nel 2015 Antonio Costa e il Partito socialista non vincono le elezioni politiche: nonostante le misure lacrime e sangue e forse grazie ai primi segnali di ripresa, gli elettori premiano ancora il Partito Social democratico di Coelho, attribuendogli però solo 89 seggi su 230.

 


 

Il premier Antonio Costa durante una visita di stato in Brasile


 

La chiave di buona parte della ripresa dal paese è la riforma che ha reso più flessibile il mercato del lavoro, ispirata dalla Troika 

Costa riesce allora a convincere il presidente Aníbal Cavaco Silva, molto restio e più incline a un governo di larga coalizione, che un governo di minoranza a guida socialista possa realizzarsi. Costa, certo di avere dalla propria parte le forze parlamentari, Bloco de esquerda (Blocco di sinistra), Partito comunista e i Verdi, riesce a mettere insieme elementi rischiosi per un governo di minoranza. Tanto forte era il dubbio sulla tenuta di un governo di simile fattura e sugli accordi intercorsi tra il Ps e i partiti a sinistra più euroscettici che il capo di stato Aníbal Cavaco Silva pone una serie di condizioni molto precise a Costa. Tra queste: nessun intralcio alle questioni già stabilite per la riduzione del disavanzo di bilancio, serietà massima per i pagamenti ai creditori del debito pubblico, nessuna rinegoziazione dei trattati europei, tanto meno l’appartenenza del Portogallo alla Nato, all’Unione europea e all’euro. Il leader socialista accetta e riceve l’incarico di formare il nuovo governo al Palácio de Belém.

  

 

Tra i meriti di Costa c’è l’aver costituito una compagine governativa giudicata subito dall’Unione europea in linea con le aspettative. In particolare il ministro delle Finanze, il liberale Mario Centeno, eletto poi anche come successore di Dijsselbloem  alla presidenza dell’Eurogruppo alla fine del 2017, risulta una carta azzeccata. Il governo Costa può vantare risultati eccezionali: un deficit che nel 2018 è stato dello 0,5 per cento del pil, un pil che è cresciuto oltre il 2 per cento nel 2018 e che oggi si attesta all’1,7 per cento, l’aumento dei consumi interni. Il debito pubblico è ancora alto, ma sotto controllo, intorno al 120 per cento. Meglio dell’Italia. Questi risultati, frutto di una alternanza politica coscienziosa, hanno permesso ad Antonio Costa di abbassare l’età pensionabile per i dipendenti pubblici (una formula un po’ risarcitoria per gli anni passati), ripristinare quattro giornate festive, innalzare il salario minimo a 605 euro. I sacrifici fatti precedentemente e la riforma incardinata sul mercato del lavoro tengono, così oggi Costa può contare su un tasso di disoccupazione davvero basso, al 6,4 per cento.

 

A trainare l’occupazione il boom degli impieghi legati al settore turistico, avvantaggiato dal netto abbattimento della tassazione (dal 23 per cento al 13 per cento) per alberghi e ristoranti. Il Portogallo grazie al turismo vive una stagione benedetta, ma di complicata gestione, per via dell’aumento dei prezzi in grandi città come Lisbona che oggi risultano poco ospitali per le tasche dei portoghesi. Persiste una inadeguatezza a livello dimensionale delle infrastrutture, specie nei trasporti: aeroporti, linee ferroviarie, mezzi pubblici sono insufficienti rispetto al grande flusso europeo ed extraeuropeo degli ultimi anni. Il tema degli investimenti pubblici in infrastrutture è delicato. Qualcosa è stato fatto da Costa in ambito sanitario, ma il Fondo monetario internazionale, in una sua classifica sugli investimenti pubblici netti, relega ancora il Portogallo all’ultimo posto in Europa, con un investimento netto annuale negativo, pari al -1,2 per cento del pil: il paese non sta investendo per mantenere un adeguato livello di manutenzione dei propri beni.

  

L’economia ha bisogno di diversificarsi. Si spende troppo poco nella ricerca, turismo e investimenti non bastano come traino

Tuttavia il massiccio arrivo di capitali stranieri e di investimenti e il boom nel settore immobiliare mascherano queste difficoltà senza dare la percezione di un paese in degrado. Città come Lisbona sono vivacissime e tirate a lucido, diversi i cantieri per costruire uffici e abitazioni, pronte ad accogliere la nuova “immigrazione al contrario” che oggi vive il Portogallo. Il paese, che nel periodo della crisi dei migranti si è fatto volentieri carico di quote superiori di profughi, da qualche anno accoglie a braccia aperte ricche e benestanti famiglie russe, sudafricane, cinesi, brasiliane. Come noto gli importanti sgravi fiscali possibili – se residenti in Portogallo almeno sei mesi all’anno – sono molto graditi anche a danarose famiglie britanniche, francesi e nord europee. Tra i molti che arrivano anche gli italiani che riscuotono la propria pensione detassata, in un paese in cui il salario medio è tra i 700 e gli 800 euro mensili.

 

La fiscalità fa tanto e aiuta a ripopolare un paese a scarsa densità e in lento declino demografico, facendone risollevare consumi ed economia, attraendo figure professionali specializzate allettate da offerte di lavoro di importanti aziende multinazionali che hanno aperto sedi nell’ex quartiere Expo a Lisbona, tornato a nuova vita, o che si mettono in proprio in luoghi più underground come l’incubatore creativo della LX Factory, sotto il ponte 25 Abril. Fisco amico per gli stranieri, investimenti dall’estero e una pressione fiscale alta per i portoghesi (sebbene in media Ocse) non possono però proprio tutto. Grandi sono le disuguaglianze e i possibili gli choc, come dice al Foglio l’economista Ocse Thomas Manfredi: “Il sistema paese lusitano è esposto a diversi rischi: bolle immobiliari, interruzione di flussi di investimenti esteri per via di mercati instabili, bassa produttività del lavoro con salari che tenderanno a stagnare, prezzi nelle città destinati a salire in modo incontrollato con un effetto spiazzamento per i cittadini portoghesi. Il Portogallo è un paese che, come l’Italia, spende pochissimo in innovazione, ricerca e sviluppo e questo alla lunga si paga caro”.

 

Intanto Costa qualche giorno fa ha stupito ancora con un colpo di scena, in un periodo di tensioni e scioperi sindacali. Non ha mandato giù uno sgarbo di alleati di sinistra e partito di centrodestra nelle trattative per l’adeguamento salariale degli insegnanti. Intuito che il conto che gli stavano per presentare era troppo alto (una riforma da 800 milioni di euro annui), Costa si reca a Belém per un incontro con il presidente della Repubblica succeduto a Silva, Marcelo Rebelo de Sousa, mettendo sul tavolo le proprie dimissioni, naturalmente rifiutate dal capo di stato. Questione per ora archiviata.

 

Con Costa, il premier della ripresa economica e delle grandi libertà sui diritti civili (altro merito di certo non secondario), l’accozzaglia tiene. È in vantaggio nei sondaggi che misurano il gradimento in vista delle prossime elezioni politiche di ottobre e qualcuno in Europa lo vorrebbe alla guida del prossimo Consiglio europeo, anche se lui al momento declina. Ma quale è la scommessa che il Portogallo e Costa non hanno ancora vinto? Risponde ancora Manfredi dell’Ocse: “Costruire un’economia maggiormente differenziata. Non bastano un paio di settori trainanti: è un rischio che nessun paese può permettersi, neppure chi oggi cresce bene ed è arrivato quasi al pareggio di bilancio. Anche se il bilancio portoghese è messo in sicurezza con un margine per reggere ulteriori crisi, bisogna innovare il sistema, puntando su ricerca, competenze e quindi nuovi modi di fare impresa”. Chissà se António Costa riuscirà a sorprendere tutti e ad affrontare anche questa sfida, non solo sfruttando l’onda lunga delle riforme di Coelho e Troika, ma riequilibrando la crescita e mettendo in sicurezza l’economia portoghese.

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