Il presidente cinese Xi Jinping si è recato all'Altare della Patria durante la sua visita a Roma (Foto LaPresse)

Pechino ha un piano per influenzare la cultura e la politica e neutralizzare le critiche

Christopher Walker

Le democrazie hanno capito tardi che a dare accesso agli autocrati sarebbero rimaste bruciate

La mossa italiana di diventare il primo membro del G7 a sostenere ufficialmente la Belt and Road Initiative (Bri) della Cina riflette il ruolo sempre più importante di Pechino nel panorama globale. Mediante la Bri e altri progetti, la leadership cinese sta dando sempre più importanza all’esercizio della propria influenza e alla manipolazione delle realtà politiche all’estero. Negli ultimi decenni, la Cina ha speso decine di miliardi di dollari nel tentativo di plasmare l’opinione pubblica e la percezione del paese nel mondo. 

 

Questi tentativi sono sempre stati intesi in contesti che tipicamente si associano con il “soft power”, un termine coniato dallo scienziato politico americano Joseph Nye e concepito come “la capacità di influenzare gli altri mediante la seduzione e la persuasione”. Questi sforzi hanno riguardato migliaia di comunicazioni interpersonali, attività culturali di ampio respiro, programmi educativi (soprattutto il network sempre più ampio di istituti Confucio) e lo sviluppo di iniziative mediatiche di ampio raggio. Benché l’informazione sia sempre più globalizzata e l’accesso a internet si stia diffondendo, i governi autoritari sono riusciti a riprendere il controllo sul dominio delle idee. In Cina, lo stato domina l’informazione, e le autorità usano le tecnologie digitali per promuovere il proprio modello all’interno del paese e all’estero.

 

Per troppo tempo gli osservatori nelle democrazie occidentali hanno interpretato l’influenza autoritaria attraverso schemi datati, mentre la Cina, e anche la Russia, penetravano nelle società democratiche in una manovra di internazionalizzazione dei regimi autocratici. La Cina, soprattutto, ha costruito piattaforme per l’istruzione, la cultura e altre forme di influenza all’interno delle società democratiche. Queste iniziative sono accompagnate dalla determinazione da parte dei paesi autoritari a monopolizzare le idee, reprimere le narrazioni alternative e sfruttare le istituzioni con cui hanno delle partnership. Siamo molto lontani dal momento unipolare alla fine della Guerra fredda, quando gli Stati Uniti sono emersi come potenza egemone globale e il termine “soft power” divenne celebre. La capacità inaspettata degli stati autoritari come la Cina di esercitare influenza all’estero ha creato il bisogno di nuovi termini che possano descrivere adeguatamente questa situazione.

 

Il principale di questi termini è “sharp power”. Descrive un approccio agli affari internazionali che solitamente riguarda la volontà di censurare e di usare la manipolazione per ridurre l’integrità di istituzioni indipendenti. Né “hard” né “soft”, lo sharp power ha l’effetto di limitare la libertà d’espressione e di distorcere il panorama politico. Come spiegato in un report del National Endowment for Democracy’s International Forum for Democratic Studies del dicembre 2017 che ha coniato il termine, è definito “sharp” perché cerca di “perforare, penetrare o trapassare” la politica e l’informazione dei paesi che sono l’obiettivo di queste politiche. La Cina in particolar modo ha coltivato la leva economica come uno strumento per fare in modo che gli altri giochino alle sue regole, spesso con l’obiettivo di limitare la libertà d’espressione. Lo spettacolo di grandi aziende multinazionali come Marriott, Mercedes-Benz e un numero sempre crescente di grandi compagnie che si piegano agli standard restrittivi del Partito comunista cinese in quanto a libertà d’espressione.

 

Le molte iniziative di sharp power di Pechino sembrano mostrare un tentativo di ridurre, neutralizzare o prevenire qualsiasi ostacolo alla presentazione che il regime vuole dare di sé. In questo senso, sono strumenti di manipolazione e di censura, non soltanto di attrazione. Il governo cinese spesso cerca di ritrarre il paese o come un’influenza straniera benevola o come un esempio di successo di sviluppo economico senza istituzioni politiche democratiche. Pechino non esita a usare i suoi alleati locali e la sua influenza per silenziare l’opposizione ai suoi progetti.

Le democrazie danno per scontato che i contatti con i paesi autoritari li condurranno a cambiamenti nei loro sistemi repressivi, ma c’è poca parità di scambio tra una società aperta e una chiusa in se stessa. Con il passare del tempo, è sempre più chiaro che gli autocrati sono riusciti a mantenere uno stretto controllo sulle loro economie nazionali e al tempo stesso a espandere l’azione dei loro campioni nazionali all’estero. Nel caso della Cina, le autorità hanno innalzato barriere su barriere alle compagnie straniere che cercavano accesso al mercato cinese, obbligandole a cedere proprietà intellettuale, a diventare partner di aziende cinesi approvate a livello centrale e sottomettendosi alla censura, tra le altre cose. Nel frattempo, le compagnie cinesi hanno approfittato del pieno accesso ai mercati democratici.

Mentre i legislatori sono diventati di recente più attenti alle questioni di sicurezza nazionale legate alle attività economiche della Cina nelle democrazie, sono stati piuttosto lenti a reagire davanti ai pericoli posti dalle attività della Cina nei media, nelle accademie e nella sfera culturale. Il regime di Pechino, così come quello di Mosca, sta essenzialmente sfruttando le opportunità della globalizzazione e al tempo stesso rifiuta il principio che ne sta alla base, quello di scambi aperti e liberi. Le democrazie hanno compreso troppo tardi che l’interazione con le autocrazie in questi contesti non è necessariamente neutrale o benigna. Questo è qualcosa con cui l’Italia dovrà fare i conti man mano che il suo rapporto con la Cina – un paese potente con un sistema di valori strutturalmente diverso da quello italiano – diventerà più profondo.

Christopher Walker è presidente per gli studi e le analisi al National Endowment for Democracy. È tra i curatori di “Sharp Power: Rising Authoritarian Influence” (2017)

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