Le proteste contro le nuove leggi sul lavoro a Budapest (foto LaPresse)

I colori della miccia ungherese. Reportage nel regno di Orbán

Paola Peduzzi

Non c’è una tradizione di scioperi in Ungheria, ma con la libertà va così: ti accorgi di quanto è preziosa quando te la tolgono

Budapest, dalla nostra inviata. Se dici sciopero generale, ti rispondono: sono solo manifestazioni. Se dici manifestazioni, ti rispondono: no, è uno sciopero generale. Non si tratta di una semplice questione semantica, perché qui siamo a Budapest, e se parli di “sciopero” gli sguardi si fanno cupi: anche questo diritto, che era stato garantito nel 1989, è stato emendato, nel 2010, ed esercitarlo oggi è un po’ più difficile. Non che ci sia una grande tradizione di scioperi in Ungheria, ma con i diritti e la libertà va così: ti accorgi di quanto sono preziosi quando te li tolgono.

 

Allora diciamo che per oggi, in tutto il paese, è prevista una grande mobilitazione, non soltanto a Budapest, dove batte il cuore dell’opposizione al governo di Viktor Orbán, ma anche in altre città: le aspettative non sono grandiose, ma ci saranno blocchi alla circolazione delle auto, palchi, cartelloni, per poter dire che la protesta non è solo una mania di Budapest, e che nessuno si vuole fermare, né farsi intimidire: questo è solo l’inizio. “Potrebbe esserci anche qualche sorpresa – dice Anna Donáth, vicepresidente di Momentum, il piccolo e recente partito “dei giovani”, resa celebre da una foto con una fiaccola colorata in mano – ma non posso anticipare nulla, e molto dipenderà dalle persone che ci saranno in piazza, dal loro umore”. Una differenza rispetto alle manifestazioni organizzate prima di Natale c’è ed è la regia dei sindacati, che hanno chiesto al governo di abolire la cosiddetta “legge schiavitù”, che è stata approvata il 12 dicembre e che permette ai datori di lavoro di imporre 400 ore all’anno di straordinario ai propri dipendenti. I sindacati vogliono anche salari aumentati, maggiori diritti per i lavoratori e un sistema pensionistico più flessibile, e poiché il governo “ci ha abbandonati”, ecco che la giornata di oggi è diventata quella in cui il paese si deve fermare, tutto insieme, tutto d’un colpo. La sindacalizzazione in Ungheria non è alta e anzi molti osservatori dicono che, pure se il pretesto è una legge che riguarda il lavoro, la mobilitazione non è animata dagli operai, bensì dai giovani, dalla borghesia, dagli intellettuali, che rappresentano soltanto loro stessi e il loro “narcisismo”, come dice la commentatrice pro governo Zsófia Horváth, “che è una forza che promuove l’individualismo e ha un effetto distruttivo sui gruppi”. Sarà, ma proteste così non si vedevano da anni e quando le frasi cominciano quasi sempre con “è la prima volta che” capisci che l’energia è tutta qui: sta accadendo qualcosa di inedito, si gela ma mettetevi comodi.

 

Sembra di avere sotto gli occhi un libretto illustrato – maestosamente illustrato, questa è Budapest – della storia attuale dell’Europa. C’è la spaccatura tra grandi città – che per l’Ungheria è fondamentalmente la sua capitale – e resto del paese; c’è il consenso popolare per un governo che garantisce un’economia solida, e pazienza se lo stato di diritto si ammacca un po’, sono questioni che interessano soltanto ai salotti ben riscaldati dell’Europa dell’ovest. 

 

C’è l’informazione di governo e quella dell’opposizione, che raccontano la stessa scena con toni, occhi e approcci tanto diversi che sembrano vivere in pianeti differenti; c’è un disamore, un dissenso, che cresce e che prova a trovare una propria compattezza in piazza, dal basso verso l’alto, perché l’opposizione è frammentata e ideologicamente spesso parecchio lontana; ci sono i giovani che stanno, loro sì, vivendo una primavera di consapevolezza, e anche se questo è mese di esami all’università e sono distratti dalle scadenze non rinunciano a mostrarsi convinti di questa protesta.

 

Sono queste le linee guida per interpretare quel che sta accadendo in molte parti dell’Unione europea, che sia la democraticissima Inghilterra o questa Ungheria democraticamente illiberale. Qui ogni cosa pare amplificata, perché il premier Orbán è diventato il testimonial di un modello che cerca di imporsi altrove, o meglio che altri leader, fan di Orbán, cercano di esportare: il laboratorio ungherese che attizza il populismo internazionale diventa un punto di osservazione imprescindibile. Pure se tanta attenzione spesso appare insostenibile anche agli stessi orbaniani, che ci tengono a sventolarci in faccia il loro modello, ma nascondono lesti le crepe. “I più aggressivi e attivi nelle proteste – dice Zoltán Kovács, il ministro per le Relazioni e le comunicazioni internazionali che è conosciuto tra i giornalisti europei perché tiene i contatti all’estero, è molto vivace sui social e sa come prendersi la scena – sono a libro paga di George Soros. I network internazionali sono anch’essi molto attivi dietro le quinte, ne vediamo le tracce ovunque: i governi di destra sono attaccati da ogni parte. E’ evidente che il dibattito sulla legge del lavoro è soltanto una scusa”. Una scusa senza senso, prosegue Kovács, “chi protesta contro il cambiamento della legge sul lavoro protesta contro i lavoratori stessi, perché questa è una misura che serve i loro interessi, e porterà a un aumento dei salari. Contrariamente a quanto dicono le opposizioni, i datori di lavoro dovranno pagare i salari aumentati ogni mese, come è ora, e nessuno è obbligato a fare straordinari, chi dice il contrario mente”. Il format lo conosciamo, lo vediamo ripetuto ogni giorno nell’America di Trump, nel Regno Unito della Brexit, nell’Italia gialloverde: l’ispirazione viene da Mosca, che da anni taccia di “russofobia” chiunque dica qualcosa di contrario al Cremlino, anche quando lo fa sulla scorta di prove e testimonianze documentate (i filmati di Salisbury, per dire). Kovács non fa eccezione: “La copertura della riforma del lavoro è piena di pregiudizi. I media internazionali non parlano mai dell’enorme crescita economica, dell’aumento a doppia cifra dei salari reali, della disoccupazione molto bassa. Non riportano i fatti, prendono le proteste fuori dal loro contesto, senza mai citare la posizione del governo. Non c’è obiettività, secondo noi”. L’obiettività, che tenerezza. Ognuno vive nelle proprie bolle, parla al proprio pubblico, asseconda le esigenze della propria tribù e ancora rivendica la freddezza lucida dell’obiettività? Chi prepara la mobilitazione di oggi risponde: gli operai non vengono perché ci sono molte intimidazioni, se vai in piazza perdi il lavoro, e molta gente non sa nemmeno che ci sono questi raduni perché la stragrande maggioranza dei media è vicina al governo e non racconta quel che sta accadendo.

 

I vasi non sono più comunicanti, c’è solo da capire come e se la frattura si approfondisce o se accade il contrario, l’edito, il già visto: l’opposizione si divide e si affievolisce e il governo reprime le proteste. Così la stagione di piazza rischia di chiudersi, ma nessuno qui, tra quanti sono indaffarati per i preparativi, pensa che possa accadere: noi siamo pacifici, anche se il governo continua a parlare di “elementi radicali”, non daremo pretesti alla repressione.

  

“Pretesto” è una parola che ricorre spesso nelle conversazioni ungheresi, come se la miccia di questa mobilitazione non fosse chiaramente visibile. La riforma del lavoro è soltanto l’ultima misura adottata da un governo che ha progressivamente accentrato il potere con l’intenzione di mantenerlo a lungo. Un passo alla volta, ma senza mai perdere il fiato, smussando diritti e pluralismo, e trovando anche il tempo di giocare con l’indignazione di Bruxelles, assecondandola soltanto quando c’è da ricevere gli alimenti e irridendola per tutto il resto del tempo. In questo Orbán è davvero il migliore: accusa l’Europa di avere un pregiudizio negativo nei confronti dell’Ungheria, dice che il problema dell’occidente oggi è il liberalismo e poi se ne sta bello comodo a ricevere fondi seduto nelle file del primo partito europeo, quello dei Popolari – e a sentirsi in imbarazzo sono sempre gli altri. Il problema è vostro, mica mio. Tanto c’è sempre qualcuno disposto a difendere il premier ungherese: è accaduto due giorni fa al Parlamento europeo, quando si è votato a favore di una mozione che prevede di togliere i finanziamenti ai paesi che violano lo stato di diritto e le norme sull’anticorruzione. Il provvedimento era pensato per Polonia e Ungheria, che già sono soggette a procedure disciplinari, e naturalmente Budapest ha risposto minacciosa: ci volete punire, ma noi non ve lo permetteremo. Nelle pieghe del voto, oltre al voto orbaniano della Lega e all’astensione dei 5s, spiccano le divisioni nel Ppe: a parte il gollista francese Brice Hortefeux, unico europeo dell’ovest a dare il proprio appoggio a Orbán, gli altri voti di sostegno sono arrivati dai paesi dell’est. A dimostrare ancora una volta che la frattura ideologica è anche geografica, e quando l’Italia pensa a dove collocarsi nelle sue giravolte di alleanze dovrebbe ricordarsi che le due dimensioni sono legate.

 

Ma queste sono puntualizzazioni da gente dell’ovest. A est, a Budapest, le proteste, i pregiudizi dei media internazionali, i voti europarlamentari sono soltanto una punizione per l’ostinazione di Orbán sull’immigrazione. “Le forze pro migranti sponsorizzate da George Soros – dice ancora il ministro Kovács – si preparano per le elezioni europee organizzando proteste ovunque, a Belgrado, Vienna, Varsavia, Roma, e continueranno a farlo, è la natura di questo particolarissimo sport”. La questione, nella piazza di Budapest, prende un’altra forma, più pratica e tangibile. In Ungheria c’è carenza di forza lavoro. La piena occupazione è un vanto del governo, ma il tasso di disoccupazione basso, al 3,7 per cento, è uno di quei dati che va letto con attenzione, contenendo l’impulso iniziale che inevitabilmente è quello dell’invidia. L’emigrazione è alta: riguarda gli under 30 maschi, in particolare, e le destinazioni privilegiate sono Germania, Austria e Regno Unito. “L’emigrazione è alimentata da ragioni economiche – dice Eva Balogh, direttrice dell’Hungarian Spectrum, un progetto editoriale nato nel 2007 quando ancora l’informazione in lingua inglese sull’Ungheria era scarsa, ed emigrata anche lei, per altre ragioni, in quell’anno che qui risuona soltanto in un modo, il 1956, quando era una ragazza – I salari sono molto bassi in Ungheria anche rispetto agli altri paesi dell’est. Leggevo l’altro giorno un documento in cui un giovane emigrato diceva che in Inghilterra guadagna quattro volte quello che guadagnerebbe in Ungheria. Poi c’è anche l’atmosfera a convincere più di 500 mila persone a emigrare: non si può certo dire che ci sia meritocrazia”. Si va via in cerca di miglior fortuna, gli immigrati non arrivano, come è noto, e non si fanno figli: il numero di abitanti è pari a quello degli anni Cinquanta, la media di figli è di 1,3 a coppia, di passeggini a prima vista ce ne sono davvero pochi e una ragazza sospira: “Mi piace leggere delle vostre storie a caccia dell’uomo perfetto, qui trovare marito è un’impresa, dicono che la malattia di Budapest sia la solitudine”. Più prosaicamente: chi pagherà le pensioni ai più anziani? E cosa accadrà quando i lavoratori dipendenti prenderanno consapevolezza di essere diventati tanto preziosi? “L’importante è non disperdere lo slancio – conferma Anna Donáth, di Momentum – dobbiamo protestare fino alle europee e poi ancora, fino in autunno, quando ci sono le elezioni amministrative”. Momentum, che gode di sempre maggior spazio sui giornali internazionali perché ha il fascino imbattibile della gioventù, si sta organizzando per uscire da Budapest, dalla nicchia borghese, e andare nelle cittadine e nelle campagne. Intanto ci si vede oggi, per la mobilitazione: la fiaccola viola che ha reso famosa Anna è pronta. Chissà se sarà proprio questo il colore della miccia.

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  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi