La manifestazione di Budapest (foto LaPresse)

Budapest e i suoi colori in piazza

Paola Peduzzi

Manifestazioni in tutta l'Ungheria. Nella capitale si fanno prove per creare un'opposizione al governo Orbán. Ecco i protagonisti

Le manifestazioni a Budapest oggi erano organizzate dai sindacati con il sostegno di alcuni partiti dell’opposizione al governo di Viktor Orbán, che si riconoscevano dalle bandiere.

  

 

Jobbik è il partito di estrema destra che alle scorse elezioni, ad aprile, si è mostrato più moderato e ha fatto opposizione a Orbán (ha perso un paio di punti di consenso, arrivando al 19 per cento). Al congresso di ottobre, il leader Tamás Sneider ha proclamato una “resistenza nazionale” contro il governo, “per cambiare il regime è necessario presentare una alternativa credibile”, ha detto. Jobbik insiste con la sua campagna contro la corruzione di Orbán, che è stata fin da subito la ragione del suo “aggiustamento”, così lo definiscono anche i militanti in piazza, “alla realtà”.

Per le elezioni europee, Jobbik, che non ha nessuna affiliazione all’Europarlamento, ha tre messaggi: combattere contro le minacce esterne, come l’immigrazione; trovare una soluzione per due problemi importanti del paese, come l’impoverimento e l’emigrazione; promuovere l’autonomia ungherese.

Buona parte della cosiddetta conversione di Jobbik è stata voluta da Lajos Simicska, che era un compagno di scuola di Orbán, che ha creato un impero nel settore dei media, dell’energia e delle costruzioni  e che ha contribuito a costruire l’orbanismo. Il biografo di Orbán, Paul Lendovai, descrive bene la relazione tra i due: “Senza Simicska, Orbán non sarebbe mai diventato premier e senza Orbán, Simicska non sarebbe mai diventato miliardario”. Quattro anni fa, dopo la vittoria elettorale del 2014, i due hanno iniziato a discutere e Simicska, che stava sempre dietro le quinte, ha cominciato a rilasciare interviste velenose: in una, diventata celebre e ancora oggi molto citata, ha definito Orbán in diretta un “geci”, che letteralmente vuol dire sperma, ma che in ungherese è un insulto pesantissimo (è lo stesso termine che viene utilizzato oggi nell’hashtag delle proteste #OG1 – è la “g” – e pare che questo termine faccia impazzire di rabbia il premier). C’è chi ha detto che Simicska si era staccato a Orbán per l’eccessiva corruzione e per il rapporto strettissimo con la Russia di Vladimir Putin, ma su questa lite clamorosa si sentono molti pettegolezzi. Comunque sia, dopo che l’offensiva contro Orbán è fallita, nonostante l’oligarca avesse messo in campo tutto il suo impero mediatico, la vendetta è stata consumata calda: ad agosto Simicska ha venduto tutte le testate che aveva, ha rinunciato alla contesa, e ha ripetuto a tutti i suoi amici che temeva per la propria vita. Se vi interessa approfondire questo scontro enorme, il sito investigativo Direkt 36 ha appena pubblicato un’inchiesta che ricostruisce molti dettagli: Jobbik resta la voce più importante, numericamente, della opposizione a Orbán, ma dell’erosione dello stato di diritto non gli importa granché, ed è più nazionalista del premier: il punto d’attacco è quasi esclusivamente la corruzione.

  

 

Il Partito socialista partecipa alle manifestazioni contro Orbán, ma il suo consenso è bassissimo: ad aprile ha ottenuto il risultato peggiore della sua (breve) storia (12 per cento) e l’anno prima aveva dovuto vendere i suoi uffici per far fronte ai problemi finanziari. Al governo dal 1994 (in alleanza nel primo mandato con i liberali, che oggi sono scomparsi), è considerato la causa dell’implosione economica del 2009 che portò a richiedere aiuti internazionali, nonché il motivo per cui Fidesz, il partito di Orbán, è diventato tanto forte. E’ un partito europeista e liberale, ma è difficile, anche in piazza, trovare qualcuno che ne parli bene, a parte i militanti.

  

 

Molta attenzione mediatica è rivolta a Momentum, che è un partito nato nel 2015 raccogliendo firme contro la candidatura ungherese alle Olimpiadi (sempre per motivi legati alla corruzione), e che nel 2018 ha preso il 3 per cento, e non è entrato in Parlamento. Momentum, con le sue bandiere viola, piace molto perché è composto da giovani e attira i giovani ed è una “minaccia contro l’apatia politica che ha preso il paese”, dice la vicepresidente Anna Donáth (fotografatissima e intervistatissima alla manifestazione da parte dei media stranieri). Donath è molto schietta quando dice: “Ci vorranno anni per creare un’opposizione, anche Orbán che pure ha una maggioranza clamorosa in Parlamento ci ha messo almeno 5/6 anni a consolidare il suo potere”. Soprattutto ci vogliono delle idee e delle alternative, e anche su questo la Donáth, come tutte le persone sentite in piazza – compresa la giovanissima Blanka Nagy (foto sopra), che oggi non ha detto parolacce contro il governo (così mi ha detto lei, ci credo) – dice che per il momento una convergenza di programmi non c’è. C’è, questo sì, grande collaborazione pratica per organizzare queste proteste: lo slancio è nato dalle pochissime deputate che ci sono in Parlamento che si sono ritrovate insieme dopo il voto della cosiddetta “legge schiavitù”. Da qualche parte si doveva cominciare per contrastare Orbán, e questo lo dicono anche quelli che considerano questa piazza come un esperimento “buono” ma non particolarmente efficace: quelle bandiere tutte insieme, nere, rosse e viola, non si erano mai viste.

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  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi