Emmanuel Macron (foto LaPresse)

Il cedimento di Macron di fronte alla società aperta che si chiude

Giuliano Ferrara

Il presidente francese e il liberalismo che se l’è fatta sotto al cospetto dei gilet gialli

Sarà anche formalmente inappuntabile, gli incendi fanno paura, e i pompieri sono lì per questo, adesso invece che acqua pompano risorse pubbliche, e vabbè, la rivolta dei burini violenti in gilet giallo ha scosso la fortezza della V Repubblica, la solita storia della Fronda che occupa Parigi e tramortisce richiedeva una scommessa di riconciliazione e pacificazione, cedimento forse inappuntabile, per carità, ma il presidente aveva cominciato come candidato incendiario, certo a suo modo, da primo della classe, da banchiere Rothschild nel paese dell’égalité, e lunedì sera il piromane liberale, che aveva promesso trasformazione, riforme nel segno della responsabilità e dello sforzo nazionale per cambiare e riprendersi dopo anni di tran tran sembrava un allievo messo in castigo dietro la lavagna. Speriamo che alla fine abbia buoni voti e si riprenda, ma questa è la dura verità delle cose. E’ vero come ricorda Carlo Ginzburg che Machiavelli nei Discorsi (III, IX) dice: “Perché un uomo che sia consueto a procedere in uno modo, non si muta mai, come è detto; e conviene di necessità, quando e’ si mutano i tempi disformi a quel suo modo che rovini” (“Nondimanco”, Adelphi). Ma nel caso sono concetti probabilmente un po’ troppo sofisticati.

 

Non ha molto senso, inoltre, promettere una giustizia implacabile ai violenti quando li legittimi come battistrada di un movimento, partito per paralizzare le strade e arrivato a devastare vandalicamente la capitale, che ottiene tutto d’un botto, e che botto si fa coi botti e con le botte, cento euro di salario minimo, la fine del contributo di solidarietà sulle pensioni inferiori ai 2000 euro, un’orgia di pagamenti esentasse e extracontributi per gli straordinari, un bonus natalizio speciale e la promessa di tassare o tartassare i ricchi d’impresa e di guadagno. Ora chiunque è autorizzato a mettere nella sua bandiera il lamento indifferenziato per le diseguaglianze, l’odio invidioso per i privilegi e per i ricchi, e a scatenare l’inferno: troverà qualche blindato d’emergenza, a tutta prima, poi subito dopo scatta l’emergenza sociale nazionale per consolare le vittime alla fame della globalizzazione che porta allo stremo e cancella il nuovo proletariato semovente e rampante. Suv, quanti delitti in tuo nome, e quante balle racconta la sociologia della crisi nell’occidente suddito insubordinato e welfarizzato. Un movimento citoyen? Ma raccontatelo a qualcun altro, cari peracottari della provincia grassa.

 

Basterà? Non si sa. Si sa che il lamento sociale è assai diffuso, incancrenito, che si muove veloce via Facebook, che è internazionalizzato da eventi formidabili come l’elezione di un impostore alla Casa Bianca, di un pistolero in Brasile, dalla Brexit maliarda e ingannevole, dall’ondata populista e spendacciona che prende il posto di austerità e cambiamenti nella società aperta che si chiude. Basta aprire il bagagliaio, ecco che ne sortisce come il coniglio dal cilindro la divisa sanculotta del momento. E si sa altresì che per reagire a tono, per contrattaccare e continuare a esistere secondo la promessa originaria legittima, non ci sono più culture di riferimento o ideologie, non ci sono più partiti e classi dirigenti e sindacati, non ci sono più le vere bandiere delle nazioni e dell’Europa, che avevano bisogno di generali dalla voce roca e aggressiva come De Gaulle o di politici fiorentini come Mitterrand e ora si devono contentare, come ci siamo contentati con passione, di professorini d’economia applicata nutriti di umanesimo filosofico da pensiero debole. Macron resta un segnacolo in vessillo, e probabilmente non aveva alternative realistiche, ma il vessillo pende senza vento. Il vento è quello contrario che gonfia le aspettative generate dalla demagogia, il famoso pasto gratis per tutti della povera, dimessa, tradizione liberale alla quale nessuno più fa la minima attenzione, nemmeno l’Economist. 

 

Lo volevano umile, quelli della City? Ecco, lo hanno avuto. Dignitoso, politico, fatto esperto dai suoi stessi errori cosiddetti: l’aver detto la verità, il famoso parler vrai di un tipo che aveva rigettato tutte le retoriche miserabiliste del suo tempo, e rilanciato su crescita lavoro e investimenti. Attraversa la strada che un lavoro lo trovi, coglione. Troppo tecnico, dicono adesso, doveva rileggersi George Sand e Victor Hugo e procedere con la mano tesa alla vasta Francia d’en bas. Bene, ora gli chiedano di riformare le pensioni, di cambiare la sanità, di mettere mano alle istituzioni per rafforzarle invece che per aprirle come una scatola di tonno al ritorno della proporzionale, all’ordalia dei referendum che fanno tanto Elvezia (ma ci vogliono gli elvetici per la bisogna: razza seria di alabardieri educata al comunitarismo, altro che égalité). Ora gli chiedano di resistere ai liceali che non accettano un grado minimo di selezione negli accessi all’università, gli chiedano la buona scuola, il Pil in ascesa, la cultura sovvenzionata, la formazione per la start-up nation, la difesa della fortezza dai forconi contemporanei, e un asse con Berlino per cambiare l’Europa tecnocratica. Diciamo la verità, senza malinconia: il liberalismo se l’è fatta sotto, e non è mai stato un pugile ben allenato nel ring della politica.

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  • Giuliano Ferrara Fondatore
  • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.