Donald Trump (foto LaPresse)

La mossa Kansas City

Daniele Raineri

Per anni lo stato del Kansas è scivolato sempre più a destra. Ora ha scelto una governatrice democratica e ha punito il candidato ultratrumpiano e anti immigrazione. Appunti per il 2020 (e per noi)

Trump vinse con il 56 per cento nel 2016, ma il suo candidato (molto coccolato) è stato battuto dalla liberal Laura Kelly

Martedì alle elezioni di metà mandato gli abitanti del Kansas hanno scelto di avere per governatore una donna del Partito democratico. Eravamo tutti molto concentrati a seguire la rimonta del democratico Beto O’Rourke in Texas contro il repubblicano Ted Cruz, fallita per pochi punti, e così non abbiamo notato la piccola rivoluzione che stava succedendo poco più a nord. Il Kansas assomiglia molto all’idea che in questi anni ci siamo fatti degli stati americani molto repubblicani – assomiglia talmente a quell’idea che in pratica è una caricatura. E’ così in mezzo al paese che contiene il centro geodetico degli Stati Uniti, quindi è equidistante dalle coste a est e ovest dove i fighetti vivono e si divertono (e tirano avanti l’economia) nelle bolle di San Francisco, Los Angeles e New York, ed è anche lontano dai confini a nord e a sud, dal Canada politicamente corretto di Justin Trudeau e dal Messico “che ci invade con gli immigrati”. Alle presidenziali vota repubblicano senza interruzioni dal 1968 e nel 2016 ha abbracciato con entusiasmo l’ascesa di Donald Trump, che prese il 56 per cento dei voti contro il trentasei di Hillary Clinton. Venti punti di distacco, in Texas furono meno di dieci, al confronto è una repubblica socialista. Il Kansas è il fondale scenografico perfetto per tutto quello che abbiamo imparato in questi anni di populismo conservatore, il forgotten man con il cappellino rosso che vuole indietro l’America che conosceva e amava ma si sente trascurato, la paura di essere diventati irrilevanti: la capitale Topeka ha 120 mila abitanti, come Pescara. Quando Trump a ottobre ha vinto la battaglia per confermare il giudice Brett Kavanaugh alla Corte Suprema – la nomina era stata bloccata perché lui è accusato di violenze sessuali – è volato a Topeka a fare il comizio della vittoria.

  

Nel 2004 lo storico e giornalista Thomas Frank scrisse un libro in anticipo sui tempi, What’s the matter with Kansas?, che problema ha il Kansas?, per descrivere il fenomeno di un posto che più s’impoveriva e più sbandava verso i repubblicani e si gettava con foga nelle guerre culturali promosse dai conservatori contro la visione del mondo considerata decadente dei progressisti: “Qui la profondità del discontento tira in una e una sola direzione: a destra, a destra e ancora più a destra. Togli alla gente del Kansas le leggi sulla sicurezza sul lavoro e quelli si vanno a registrare come repubblicani. Togli loro la terra e quelli vanno a protestare davanti alle cliniche che fanno gli aborti. Dilapida i risparmi che hanno accumulato in una vita in spese di manicure per qualche grosso capitano d’azienda e ci sono buone possibilità che vadano a iscriversi alla John Birch Society [è roba d’estrema destra]”. Insomma, è una cartolina dell’America rossa. Leggi sulle armi quasi zero, controlli al minimo, puoi andare con una pistola sotto la giacca anche a seguire le lezioni all’università. Almeno centomila bambini che vivono in povertà, su una popolazione totale di due milioni. Strade che attraversano zone agricole infinite e in pratica deserte: la densità è di poco superiore a tredici abitanti per chilometro quadrato. In Italia siamo duecento per chilometro quadrato, in confronto a loro viviamo in un vicolo di Hong Kong.

  

Laura Kelly (foto Wikimedia)


  

Fino al giorno del voto di metà mandato i sondaggi in erano “too close to call”, davano i candidati così vicini nella gara che era impossibile dire chi avrebbe vinto. Poi Laura Kelly, la democratica, ha battuto Kris Kobach, il repubblicano, quarantotto per cento a quarantantrè. “Dio non ha voluto che io vincessi”, ha detto lui. E ora molti si chiedono se in Kansas non sia stato appena scritto il manuale d’istruzioni per capire come un partito democratico uscito distrutto e disorientato dalle elezioni 2016 potrebbe battere il populismo di Donald Trump alle presidenziali del 2020.

   

Kobach, il pupillo di Trump, ha girato l’America con una proposta sull’immigrazione che ha mandato in bancarotta delle città

Gli osservatori se lo chiedono anche perché Kris Kobach ha scelto di giocarsi tutta la campagna elettorale come fosse un piccolo clone di Trump. A partire dal motto, “Make Kansas Great Again”, fino agli eccessi delle sue trovate propagandistiche. A giugno sfilò a una parata locale su una Jeep scoperta, verniciata con i colori della bandiera americana ed equipaggiata con la replica non funzionante di una mitragliatrice pesante, incluso un nastro di munizioni che penzolava. Quel giorno persino molti repubblicani storsero il naso, “questa dovrebbe essere una festa anche per bambini, se proprio lui volesse provare che è a favore delle armi gli basterebbe esercitare il diritto di girare con una pistola nella fondina sotto la giacca”, “quella è un’arma che nemmeno il Secondo emendamento protegge”. Gli organizzatori della parata alla fine fecero un comunicato per scusarsi se l’apparizione aveva turbato gli spettatori. Lui si giustificò dicendo che la mitragliatrice rappresentava “la libertà d’espressione”. Martedì quella stessa contea ha votato per Kelly con un distacco di sedici punti.

Kobach si fece notare da Trump nel 2016, quando appoggiò la teoria presidenziale che tentava di giustificare la vittoria di Hillary Clinton al voto popolare – quasi tre milioni di scarto – con un complotto. I democratici avevano ottenuto più voti grazie alle schede illegittime messe nelle urne da tantissimi immigrati che erano stati fatti arrivare da fuori per quello scopo, era la tesi. Si trattava per Trump di un punto d’onore e non sostanziale, perché naturalmente in America conta il voto degli stati e non direttamente quello degli elettori, non c’è un sistema proporzionale nazionale e nessuno potrebbe mettere in dubbio che lui è il presidente degli Stati Uniti d’America. Kobach fu chiamato a far parte della commissione d’inchiesta che avrebbe dovuto portare le prove dello scandalo, ma la commissione non approdò a nulla e fu sciolta. Però lui rimase nel cuore di Trump, che questo mese ai comizi diceva alla gente del Kansas: “Vorrei così tanto portarvelo via, è un peccato che lo voterete come governatore. Non ascoltatemi!”.

Sarebbe più corretto dire che il professore di legge Kobach non è un clone trumpiano, ma un anticipatore di Trump. La lotta all’immigrazione non soltanto era il centro della sua campagna elettorale, ma anche della sua carriera precedente. Negli ultimi dodici anni ha girato gli Stati Uniti e si è arricchito grazie alle consulenze legali anti-immigrazione che ha fornito a molte piccole città che temevano l’aumento del numero degli stranieri. Il problema è che le ordinanze che lui ha prodotto erano così deboli e mal congegnate dal punto di vista legale che hanno finito per costare alle città – che spesso hanno budget di meno di dieci milioni di dollari – alcuni milioni di dollari in litigi nei tribunali. Riusciva ad affascinare i consigli municipali con le sue proposte di legge, ma alla prova dei fatti finiva male. Ricorda qualcuno?

Tra un propagandista sull’immigrazione e una signora che parla di tasse e servizi, il Kansas superrosso ha scelto la seconda

Kobach si vanta di avere scritto nel 2006 l’ordinanza anti-immigrati di Valley Park, in Missouri, settemila abitanti, insisteva molto su quel lavoro quando andava in tv e in un suo vecchio programma alla radio e l’ha scritto anche nel suo curriculum. Soprattutto se ne vantava con le altre città per cui ha lavorato. L’ordinanza da lui creata puniva tutti i datori di lavoro che assumono immigrati clandestini e tutti i proprietari di casa che affittano a immigrati clandestini. Ma è stata demolita a colpi di ricorsi, perché caricava sulle spalle degli abitanti di Valley Park l’onere non banale di dimostrare che i loro assunti e affittuari fossero cittadini americani in regola. Non fu mai stata applicata con successo neanche in un singolo caso e in due anni produsse trecentomila dollari di debiti nei tribunali a carico della città, fino a quando non fu depotenziata – ora l’ordinanza dice che è illegale assumere immigrati clandestini “pur sapendo che sono clandestini”, quindi è inutile perché si tratta di un reato già punito dalla legge federale. Kobach ha ripetuto lo stesso schema a Farmers Branch in Texas, che poi ha dovuto pagare sette milioni di dollari in cause legali con i suoi cittadini, e a Hazleton in Pennsylvania, che per sborsare un milione e mezzo di dollari in controversie legali ha dovuto dichiarare bancarotta e farsi assistere dallo stato. Lui calcava molto sulla situazione emergenziale, dipingeva un futuro fosco e senza controllo, calcava la mano sulla necessità di intervenire con regolamenti di eccezionale durezza, incassava e poi lasciava la città a sbrogliare le conseguenze. Fremont nel Nebraska dopo il passaggio di Kobach ha dovuto aumentare le tasse di proprietà per uscire dal dissesto. In nessuna di queste città quelle ordinanze sono ancora in vigore. Albertville, in Alabama, si salvò per un soffio perché quando ormai era tutto pronto per l’approvazione un consigliere municipale fece una telefonata a Valley Park per sapere com’era andata l’ordinanza e scoprì che era stata un disastro.

 

La sua rivale, Kelly, non ha mai citato Trump in tutta la campagna elettorale, ha ignorato le provocazioni ed è sempre rimasta sulle cosiddette “kitchen table issues”, gli argomenti di cui parlano le famiglie quando fanno i conti attorno al tavolo della cucina. Istruzione, spese mediche, tasse, strade. Il problema sono gli ospedali che chiudono e le scuole che cadono a pezzi. Niente immigrazione e nemmeno un accenno a brogli elettorali, un altro cavallo di battaglia di Kobach. Mentre il resto della nazione s’accapigliava sui temi imposti dal presidente a Washington, primo su tutti l’avvicinarsi della carovana di migranti da sud, Kelly si è deliberatamente sottratta. Una delle sue proposte principali è stata l’espansione del Medicaid, il sistema federale di aiuto per le famiglie più povere quando devono pagare per le spese mediche, che è finanziato dal governo ma è gestito dai singoli stati ciascuno a modo suo. Nel 2017 i repubblicani del Kansas avevano bloccato l’espansione del programma con un veto, ma la copertura medica è un tema troppo sentito. Un altro tema, con sua stessa sorpresa, è stato il ritorno del finanziamento pubblico per gli eventi culturali, che era stato spazzato via in un taglio delle tasse qualche anno prima. “Mi sono accorta che la gente negli incontri me lo chiedeva, allora ho cominciato a parlarne a tutti gli incontri e vedevo che c’era una risposta”. Il programma copre i costi dei piccoli eventi culturali, come le fiere, i concerti e le parate che passano nella Main Street e migliorano la qualità della vita. “Prometto di ripristinare il fondo pubblico per le arti” è diventata la frase che prendeva gli applausi più fragorosi durante i comizi di Kelly: in Kansas, nel 2018. Quando i giornalisti hanno chiesto a Kobach cosa ne pensasse, lui non sapeva di cosa stessero parlando.

  

Il metodo Kelly è chiaro: cambiare gli argomenti di conversazione. Cioè: usare quelli concreti, senza farsi attirare dai trumpiani

Sulle tasse si potrebbe scrivere un capitolo a parte. Il Kansas è appena uscito da un esperimento disastroso tentato dal governatore precedente, Sam Brownback, nel 2012. L’idea guida era stata che tagliare le tasse in modo robustissimo sarebbe stato come fare “un’iniezione di adrenalina” al Kansas, diceva Brownback. I ricavi d’impresa furono addirittura tassati allo zero per cento, cosa che spinse molti a truccare i propri redditi da lavoratori dipendenti come se fossero soldi che arrivavano da un’attività imprenditoriale. Ma l’esperimento fallì, come dovettero constatare anche i repubblicani nel 2017 davanti alle casse dello stato rimaste vuote e all’evidenza che non c’era stata la crescita economica sperata. Nel frattempo, le strade avevano bisogno di manutenzione, gli ospedali di non essere chiusi e le scuole di essere rifatte. Votarono a maggioranza la fine di quel regime fiscale, che è ancora così detestato che Kelly durante il discorso d’apertura della campagna ha menzionato Brownback cinque volte. Noi – è stato il messaggio della democratica – faremo in modo diverso. Lo stato prenderà le tasse dei cittadini e in cambio offrirà servizi decenti. Punto interessante per il 2020: l’esperimento di Brownback fu un’anticipazione fedele del taglio delle tasse votato dal Congresso di Trump, e gli elettori del Kansas non pensano sia equo.

   

E così, due anni dopo avere sollevato in trionfo Trump e avere ripudiato Hillary Clinton e tutto quello che lei rappresentava, il Kansas si è scoperto freddino verso il populismo che emana dalla Casa Bianca e verso i suoi emissari. Quando Steve Bannon, ideologo di Trump, nemico del globalismo e architetto della sua vittoria elettorale, è atterrato a Topeka per fare un comizio si sono presentati in venti. E’ come se i forgotten man volessero ricordare ai trombettieri della guerra contro l’élite globale che a loro rincresce essere trascurati, ma non per questo devono essere trattati da scemi. Ed è finita che tra un candidato molto amato da Trump che batteva come un ossesso sul pericolo immigrazione e una candidata donna che parlava di aumento delle tasse e di servizi e che non s’è impelagata in guerre culturali, il Kansas rosso ha scelto la seconda. Gli osservatori prendono nota.

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  • Daniele Raineri
  • Di Genova. Nella redazione del Foglio mi occupo soprattutto delle notizie dall'estero. Sono stato corrispondente dal Cairo e da New York. Ho lavorato in Iraq, Siria e altri paesi. Ho studiato arabo in Yemen. Sono stato giornalista embedded con i soldati americani, con l'esercito iracheno, con i paracadutisti italiani e con i ribelli siriani durante la rivoluzione. Segui la pagina Facebook (https://www.facebook.com/news.danieleraineri/)