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Stanca dei tradimenti italiani, l'Ue potrebbe sbarazzarsi di noi

Maurizio Maresca*

Le divergenze di obiettivi e strategie tra l’Italia e gli altri paesi membri avvicinano l’ipotesi di un’Europa a doppia velocità

Le scelte recenti del nostro paese inducono a porci alcune domande sulla possibilità che l’Italia e l’Unione europea siano in grado, insieme, di proseguire il percorso di integrazione avviato negli anni 50 con i trattati di Parigi e Roma. La sensazione, infatti, è che le traiettorie siano così diverse che sia difficile giungere a una linea comune senza mettere a rischio sia gli obbiettivi (sociali) del nostro paese sia quelli ( di crescita) dell’Unione. Una sensazione, per chi ha vissuto, creduto e studiato il fenomeno europeo, che è triste e fastidiosa.

  

Solo fino alla fine degli anni 90 l’Unione europea era un “ordinamento ” invidiato (e copiato) nel mondo. Le vie di Bruxelles dove avevano sede le diverse direzioni generali della Commissione (Avenue Joseph II, Avenue d’Auderghem, Place Madou, Rue de Mot, ecc.) erano simboli di una Europa di entusiasmo e successo, competitiva e propulsiva, che provava a passare dall’integrazione economica di mercato a uno spazio integrato di diritti. E che aveva assicurato la pace e il dialogo fra i paesi membri e all’interno degli stessi. Questa Europa, fedele ai canoni di Westfalia, e quindi rispettosa delle sovranità nazionali, ha creato benessere. Ma a partire dagli anni 2000, purtroppo, ha dimostrato anche stanchezza, proprio perché incapace di innovare. Forse per l’egemonia tedesca (e in parte francese), che ha molto limitato l’attuazione del single market e specialmente della politica commerciale comune, forse per la eccessiva politicizzazione delle sue istituzioni (e specialmente di quelle che, nell’idea dei padri fondatori, avrebbero dovuto essere terze e indipendenti) l’Unione si è fermata: ha perso per strada, dopo anni di polemiche non sempre sotto traccia, il Regno Unito, probabilmente l’unico paese che avrebbe potuto – e che potrebbe – bilanciare in chiave meno protezionista l’influenza di Germania e Francia (davvero in controtendenza la marcia dei 700.000 a Londra, in un paese che cresce di oltre il 3 per cento, che chiedono di restare in questa Europa neoliberista e in crisi!).

  


Nell’Unione nessun paese membro, anche se fondatore, è essenziale. Al suo interno ci si sta bene e autorevolmente, nel rispetto della comunità di diritto. Oppure, nell’interesse di tutti, se uno o più paesi cambiano idea, è bene perseguano i loro indiscutibili obiettivi senza frenare gli altri


  

La Commissione e gli stessi stati membri avranno ora l’onere di rilanciare l’esperienza di Roma e Maastricht proponendo senza ritardo e con coraggio un programma che, sulla base dei princìpi dei trattati, superi le opacità degli ultimi anni. E magari recuperi Regno Unito, Norvegia e Svizzera intorno a un progetto di rafforzamento del mercato unico.

  

Ad esempio, proprio partendo dal single market, si dovrà:

  

1. Riordinare la regolazione dei mercati finanziari confermando la centralità dell’utente e dei suoi diritti anche attraverso enti di regolazione ad hoc che presentino caratteristiche di terzietà e indipendenza;

  

2. Promuovere un vero spazio unico della mobilità europea, perché la coesione e la crescita si assicurano solo realizzando senza ritardo le infrastrutture di cui al regolamento 1315 del 2013 e magari riservando la gestione delle stesse a una agenzia internazionale;

  

3. Mettere mano al sistema della ricerca scientifica e dell’Università, individuando regole comuni per assicurare il merito e la competitività.

  

Si tratta di tre comparti dove l’Europa per ora ha fallito.

  

Fondamentali saranno poi le trattative con l’estremo oriente, l’America del nord e del sud e con l’Africa nel solco di un nuovo multilateralismo che eviti il protezionismo franco-tedesco che ha indotto il Regno Unito a uscire per dare luogo a una specie di mercato unico con gli Stati Uniti. L’esercizio delle libertà economiche e la concorrenza dovranno connotare anche settori dove vengono in rilievo poteri pubblicistici che, fino ad alcuni anni fa, vi erano persino dubbi fossero riconducibili al mercato. Così si attende dalla Commissione una maggiore vigilanza sulle dinamiche della concorrenza, specie per quanto riguarda le relazioni verticali tra gli stati e le loro imprese pubbliche evitando, ad esempio, l’abuso nell’affidamento in house o misure nazionali (aiuti o preferenze) che nessun operatore privato adotterebbe sulla base delle dinamiche del mercato. Queste riforme, per essere efficaci, dovranno inevitabilmente comportare ulteriori quote di sovranità da mettere in comune.

 

Ora, c’è da domandarsi se l’Italia sia su un programma del tipo indicato (che altro non è che l’attuazione dei trattati). E specialmente se sia protagonista propulsivo e autorevole. Perché è inutile negare che le traiettorie italiane sembrano talora divergenti da quelle di segno neoliberista dei trattati. La distanza su alcuni fronti come le infrastrutture per la crescita, le privatizzazioni per assicurare il buon funzionamento del mercato (si ricorderà la sintesi Andreatta – Van Miert per adeguare al diritto della Concorrenza un paese con una forte impresa pubblica), il rapporto fra stato e impresa pubblica e la stessa importanza della comunità di diritto, pare davvero tanta! E questo senza considerare la querelle di oggi, anche meno importante, sul Patto di Stabilità e Crescita. Il problema, allora, potrebbe porsi, non tanto da una prospettiva italiana, ma dalla prospettiva europea e degli stati membri, convinti della necessità di una maggiore coesione per rilanciare l’Unione anche con misure coraggiose. Paesi che probabilmente non sono pronti ad affrontare situazioni defaticanti di conflitti interni con chi non condivide (più) i medesimi obiettivi strategici. Non dimentichiamo che vi è chi teorizza una Unione di pochi: tesa e competitiva ma specialmente unita dalla assoluta condivisione di regole comuni. In breve, è logico pensare che, ai fini della integrazione dell’Unione, nessun paese membro sia essenziale, anche se fondatore: o nell’Europa ci si sta bene e autorevolmente, e nel rispetto della comunità di diritto, oppure, nell’interesse di tutti, se uno o più paesi cambiano idea, è bene perseguano i loro indiscutibili obiettivi senza frenare gli altri. Ma questo è uno scenario che darebbe luogo a valle a tutta una serie di conseguenze, anche di ordine internazionale, non tutte prevedibili.

  

* Maurizio Maresca è professore ordinario di Diritto dell’Unione europea all’Università di Udine

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