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Indizi attorno al mondo: c'è ancora del buon senso nell'èra populista

Maurizio Stefanini

In Colombia è fallito miseramente un referendum giustizialista e anticasta. In Francia i sindacati difendono McDonald’s

Roma. E’ un mondo alla rovescia, o un mondo che incomincia a raddrizzarsi? Sono due notizie che vengono da due parti del pianeta molto lontane, e che in apparenza riguardano temi tra di loro molto distanti. Eppure, un filo rosso logico le collega. Notizia numero uno: in contraddizione con questa nostra Italia dove la buriana populista si è concentrata nell’idea che tagliare gli stipendi agli eletti sia la panacea di tutti i mali, un referendum in Colombia ha bocciato l’idea (non è stato raggiunto il quorum dopo una campagna di boicottaggio dei contrari al voto) di abbassare del 40 per cento gli emolumenti ai membri del Congresso in nome della “lotta alla corruzione”. Notizia numero due: in contraddizione con quanto in Francia avveniva una ventina di anni fa, dove il contadino José Bové diventava una star della sinistra planetaria per aver sfasciato un McDonald’s, in un quartiere degradato di Marsiglia sinistra e sindacati si sono mobilitati per difendere dalla chiusura niente meno che un ristorante McDonald’s, antico e odiato simbolo dell’imperialismo americano con un dipendente che ha minacciato addirittura di darsi fuoco dentro al locale.

   

Fermate il mondo

Fermate il mondo voglio scendere, o fermate il mondo voglio risalire? “Consulta Popolare Anticorruzione” si chiama un referendum che si è tenuto in Colombia domenica, sulla base di sette domande dal tono generale che in Italia definiremmo tra il grillino e il dipietrista. La prima di queste chiedeva di abbassare lo stipendio di deputati e senatori “da 40 a 25 salari minimi mensili vigenti”. La seconda, che i condannati per corruzione e delitti contro l’amministrazione pubblica dovessero scontare l’intera pena in carcere e che lo stato potesse dare unilateralmente per conclusi i contratti con loro o con le persone giuridiche di cui facessero parte, senza possibilità di indennizzi o di poter avere di nuovo contratti con lo stato stesso. La terza, che gli enti pubblici potessero fare contratti solo attraverso moduli prestabiliti, in modo da impedire ogni discrezionalità. La quarta, l’obbligo di audizioni pubbliche per i bilanci. La quinta, l’obbligo di rendiconti annuali per gli eletti. La sesta, l’obbligo per gli stessi eletti di rendere pubblici i patrimoni, con possibilità di controllo sui “parenti fino al quarto grado di consanguineità”. La settima, il limite di tre mandati per tutti gli eletti.

  

“Un modo per esprimere il nostro rifiuto alla corruzione”, spiegava il presidente Iván Duque: che pur non essendo stato un promotore dell’iniziativa vi si era accodato. “Le prime due di queste proposte sono incostituzionali; le altre cinque inutili perché si trovano già nei codici penale e civile”, spiegavano i critici. Peraltro in disaccordo con Duque era anche l’ex presidente Álvaro Uribe Vélez: formalmente il capo del suo stesso partito, ma con cui si è evidenziata una prima importante differenza. Attivamente a favore del boicottaggio i magistrati, il cui stipendio è per legge ancorato a quello dei congressisti. Alla fine, su circa 11,6 milioni di votanti i sì sono stati da un minimo 11.280.148 per la settima domanda a un massimo di 11.463.662 per la seconda. Ma per passare ci sarebbe voluto un quorum di almeno 12,1 milioni di voti. Dunque, bocciatura e polemica sullo spreco di soldi. Lo slogan che sembra aver convinto la maggioranza degli elettori a stare a casa era però chiaramente ingannevole. “In nessuna parte del mondo si è mai pensato che si possa combattere la corruzione pagando i funzionari pubblici di meno”, spiegavano i critici. Efficace, in un paese dove si differenziava il Cartello di Medellín da quello di Cali sulla base del teorema che “l’uno uccide, l’altro compra”. Come però sappiamo bene, per lo meno un paese dove si crede in questo bizzarro teorema c’è: l’Italia di Grillo.

   

Dalle Ande a Saint Barthelemy

E andiamo ora dalle Ande a Saint Barthelemy, quartiere disagiato di Marsiglia nord. Lì il 7 agosto il signor Kamel Guemari, 37enne e da 16 anni impiegato nel locale McDonald’s, ha convinto i suoi colleghi a uscire, si è chiuso dentro, si è cosparso di benzina, e ha minacciato di darsi fuoco in diretta Facebook. Le telefonate immediate di una senatrice socialista e del capo della polizia locale lo hanno dissuaso. Ma a quel punto Guemari era già diventato un eroe. Delegato di quella Force Ouvrière che sarebbe più o meno la Uil francese, nome islamico, barba che il leader di sinistra Jean-Luc Mélenchon ha definito “castrista”, ha creato una coalizione in gran parte costituita da sindacalisti e leader di sinistra del tipo che per anni hanno combattuto contro i McDonald’s come simbolo di americanizzazione. Giusto all’agosto del 1999 risale quella mobilitazione contro un McDonald’s la cui leadership segnò per José Bové l’inizio di una carriera politica culminata nel 2014 come candidato dei Verdi alla presidenza della Commissione europea.

 

A Saint Barthelemy, il McDonald’s è un importante punto di aggregazione comunitario, che dà inoltre lavoro a ben 77 persone. Senza arrivare a minacciare il suicidio in stile bonzo, anche i colleghi di Guemari si sono dati da fare, facendo i turni per dormire nel locale. E la cosa più notevole è che il rischio contro cui combattono non è tanto la chiusura, ma il rischio che il McDonald’s sia venduto a un imprenditore asiatico intenzionato a trasformarlo in un locale halal: cioè, di cibo conforme alla tradizione islamica.

 

Un tribunale deciderà il 3 settembre. Gran parte degli abitanti della zona sono musulmani e/o africani, ma il loro lo slogan è: “vogliamo hot dog e hamburger, non il cibo halal”!. Forse più memori di idiosincrasie del passato, i sindacalisti sono meno categorici nei toni: “Non combattiamo a favore di McDonald’s, ma a favore di quel che rappresenta per le persone del quartiere”. Il proprietario ha deciso a maggio che vuole vendere perché ci rimette: 3,3 milioni di euro dal 2009. I dipendenti controbattono che in realtà vuole punire il loro attivismo sindacale. L’esito è comunque lo stesso: da simbolo di imperialismo e oppressione, adesso la M gigante di McDonald’s è diventata un simbolo di resistenza ed emancipazione popolare.

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