Sostenitori di Erdogan ad Ankara (foto LaPresse)

Per capire la guerra tra Erdogan e l'occidente basta seguire i soldi

Gabriele Moccia

La Turchia si smarca dall’America di Trump e trova sponde in Qatar, Iran e Russia. L’Arabia Saudita la contrasta

Roma. Il respingimento dell’appello per il rilascio del pastore americano Andrew Brunson da parte del tribunale di Smirne ha reso ancora più agitate le acque della crisi economica turca che sta ridisegnando le alleanze mediorientali, allargando la faglia che tiene ormai sempre più distanti i paesi che supportano la linea atlantica ricercata da Donald Trump e i suoi alleati regionali più stretti, Arabia Saudita in primis. Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha incassato il pieno sostegno della Russia di Vladimir Putin – il ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov è stato uno dei primi a scagliarsi contro le sanzioni americane imposte ad Ankara – che si appresta a sostenere la valuta turca attraverso un accordo bilaterale in valuta locale (rublo-lira turca) per rilanciare gli investimenti diretti. Del resto, come ha riferito il servizio delle dogane russo, nel primo semestre 2018, il volume degli scambi commerciali fra Russia e Turchia è stato pari a 13,34 miliardi di dollari, con un aumento del 37 per cento su base annua. Oltre a Mosca, Ankara può contare sul sostegno del regime degli ayatollah che resta la principale fonte di approvvigionamento energetico: la Turchia ha appena rinnovato un accordo per la fornitura di gas sino al 2026 pari a 9,5 miliardi di metri cubi di gas. Proprio Teheran sarà il luogo dove ai primi di settembre si terrà il vertice a tre fra Putin, Erdogan e il presidente iraniano Hassan Rohani, formalmente per discutere del destino della Siria ma in realtà per rilanciare l’iniziativa comune volta a contrastare Washington.

 

L’appello di Ankara ai fondi stranieri, per evitare l’intervento non voluto del Fondo monetario internazionale, ha trovato sponda anche nel Golfo persico con la decisione dell’emiro del Qatar Tamim bin Hamad al Thani di stanziare 15 miliardi di dollari di investimenti a favore dell’economia turca. Una mossa che non è piaciuta all’Arabia Saudita che, al contrario, sin dall’inizio della crisi si è mantenuta allineata alla Casa Bianca. In questi giorni Riad è venuta in soccorso della strategia atlantica trumpista, stanziando 100 miliardi per la stabilizzazione siriana e offrendo aiuto all’Iraq per far fronte alle carenze idriche ed energetiche, per non parlare dell’accordo tra il fondo sovrano saudita e l’americana Tesla per sostenere i piani di delisting del magnate proprietario Elon Musk. Dunque, se il ministro delle Finanze turco, Berat Albayrak, genero di Erdogan, ha assicurato che la Turchia uscirà dalla crisi della moneta più forte di prima è altrettanto vero che l’asse Stati Uniti-Arabia Saudita, allargato anche a Egitto e Giordania – una sorta di Nato araba come l’ha definita Trump qualche settimana fa – potrebbe danneggiare non solo l’Iran (come nei piani iniziali di Washington) ma ora anche la stessa Turchia. Vista la larga dipendenza di Ankara dal greggio e dal gas le mosse di questo asse in medio oriente potrebbero colpire anche questo versante.

 

Sia i sauditi sia gli americani sono due principali rivali dell’Iran in campo energetico e, come sostiene Brad Setser, economista del Council on Foreign Relations, “la Turchia è stata colpita da un doppio smacco quest’anno: è tra le economie più dollarizzate tra i vari mercati emergenti ed è una delle più dipendenti dal petrolio e dal gas”. Si tratta di uno scenario che Erdogan punta a disinnescare anche sfruttando nuovi approcci come quello con la Francia. In questi giorni, a differenza della Germania – particolarmente fredda nei confronti del governo turco – Macron ha offerto il rilancio delle relazioni economiche e commerciali tra i due paesi, mostrandosi molto preoccupato per la stabilità dell’economia turca. L’Eliseo – come in Libia – punta a sfruttare gli interstizi lasciati liberi dalla politica estera comune di Bruxelles che, ancora una volta, sembra non volersi assumere le proprie responsabilità nella regione.