Donald Trump (foto LaPresse)

Nato senza camicia

I ruggiti di Trump sono “una tattica per ottenere una giusta riforma della Nato”, ci dice un diplomatico di peso

Roma. Per usare l’immagine quasi montaliana concepita da un giornalista di Fox News, Donald Trump è partito por sorvolare il vertice della Nato a Bruxelles “come un gabbiano che defeca su tutto, starnazza e se ne va”, e gli attacchi agli alleati “insolventi”, l’accusa alla Germania di essere “totalmente controllata dalla Russia” per via della dipendenza energetica, i “must pay immediately” su Twitter e il roboante raddoppio della quota di pil che i membri dovrebbero spendere per la difesa (dal 2 al 4 per cento) sembravano confermare l’idea del distruttore di alleanze transatlantiche pronto a farla pagare agli alleati scrocconi. Il documento firmato dai 29 stati membri a Bruxelles è invece più cauto e segnato dalla continuità.

 

Il testo conferma l’impegno a difendere gli ideali che la Nato rappresenta, sottolinea l’importanza dell’articolo 5 sulla difesa comune, reiterando la necessità di raggiungere il 2 per cento della spesa militare entro il 2024, e castiga la Russia che “minaccia la sicurezza e stabilità euro-atlantica” in molti modi, dall’invasione dell’Ucraina ai missili a Kaliningrad fino alle spie avvelenate e alle intense attività cibernetiche (e non solo) per influenzare la situazione politica di altri paesi. La minacciosa retorica di Trump ha trovato poco spazio nella dichiarazione, ma il messaggio del presidente americano è arrivato forte e chiaro agli alleati.

 

Il gabbiano incontinente è pronto a riprendere il volo per Londra e poi, fatalmente, per il solitario bilaterale con Vladimir Putin in Finlandia. Zalmay Khalilzad, ex ambasciatore americano in Iraq, Afghanistan e all’Onu, è convinto che lo spettacolo della disgregazione trumpiana visto ieri all’opera sia una strategia funzionale a un obiettivo realistico, che lui chiama “reset strategico”. Al Foglio Khalilzad spiega che una profonda riforma della Nato, un riadattamento alle condizioni geopolitiche di questa fase è “non solo essenziale ma è nell’interesse reciproco dell’America e degli alleati che ora si lamentano di Trump”. Gli ideali ispiratori della Nato, legati alla protezione della sicurezza, della pace, della libertà individuale e della rule of law non devono essere toccati, dice il diplomatico, ma il quadro strategico dell’alleanza “deve cambiare, anzi deve essere resettato”.

 

I motivi per cui il reset è necessario sono tre: “Primo: l’impossibilità degli Stati Uniti nel lungo periodo di sostenere il peso della difesa dell’Europa, del medio oriente e del quadrante pacifico, diventato sempre più importante per la crescita della Cina. I bisogni domestici crescono, la popolazione invecchia, è semplicemente impossibile che gli Stati Uniti facciano quello che facevano durante la Guerra fredda. Alcuni alleati hanno un’ottima situazione economica, ma non fanno abbastanza. Secondo: le minacce stanno cambiando. La Russia è una minaccia grave, ma anche il fronte meridionale dell’alleanza, con il terrorismo e l’immigrazione di massa, pone nuove sfide. Dal medio oriente arrivano altre preoccupazioni, che si intersecano con lo sviluppo tecnologico. Non dobbiamo dimenticarci che nel giro di una decina d’anni l’Iran potrebbe avere la capacità missilistica per raggiungere il cuore dell’Europa. Terzo: negli ultimi dieci anni gli alleati non hanno risposto agli inviti degli Stati Uniti a contribuire di più e meglio all’alleanza”. Insomma, quando Trump dice che la Nato è “obsoleta” coglie un’oncia di verità: “L’alternativa non è certo lo smantellamento di un’alleanza fondamentale per gli equilibri globali”, spiega Khalilzad, “l’alternativa è una profonda riforma. Se questo è quello che intende Trump quando dice ‘obsoleta’, credo che abbia ragione. La situazione geopolitica in cui è cresciuta la Nato non è più valida, e in questa nuova situazione l’America non può avere lo stesso peso che aveva prima”.

 

La fissazione trumpiana per gli alleati come “free rider”, parassiti che si affidano costantemente al salvataggio della piggy bank di Washington, è velata di una retorica minacciosa, concepita per suscitare negli alleati il timore di un divorzio. Per Khalilzad si tratta di un espediente tattico che “riflette la frustrazione per il fatto che i precedenti sforzi, fatti in maniera gentile e diplomatica, di George W. Bush e Obama di chiedere più contributi agli alleati non sono andati a buon fine”. La convinzione del navigato diplomatico è corroborata da un aneddoto. E’ stato lui a introdurre, durante la campagna elettorale, il discorso al Center for the National Interest con cui Trump ha delineato la filosofia dell’America First. “Prima del discorso – racconta Khalilzad – abbiamo parlato a lungo e lui già a quel punto teorizzava l’escalation retorica con gli alleati come metodo negoziale per riuscire dove le buone maniere dei predecessori avevano fallito. Ora, non è facile afferrare le intenzioni di Trump, ma credo che la sua prospettiva sia quella del reset, non della distruzione”. L’iperbole sulla spesa militare portata al 4 per cento va in questa direzione? “Le percentuali sono importanti, ma non bisogna fissarsi su quelle, perché sono soltanto l’input, mentre dovremmo concentrarci sull’output, cioè su come usare in modo strategico le risorse militari e le conoscenze che l’alleanza ha a disposizione. Vorrei sentire più discussioni su questo punto, e meno sulle percentuali di pil”.

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