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Così il protezionismo di Trump s'abbatte sul contadino dell'Iowa, il suo elettore

La guerra commerciale tra Cina e Stati Uniti inizia ufficialmente. Oggi entrano in vigore i dazi, un incubo per allevatori, piccoli industriali e altri forgotten men americani 

New York. “Ci hanno chiesto di essere buoni patrioti, e lo siamo stati. Ma non voglio essere un buon patriota che alla fine della guerra muore”, dice Ken Maschhoff, proprietario della più grande azienda famigliare di allevatori di maiali d’America, nelle piane agricole e repubblicane dell’Illinois. “E’ un incubo”, spiega Errico Auricchio, presidente della BelGioioso, colosso del formaggio con sede in Wisconsin, messo in ginocchio dall’innalzamento dei dazi da parte di Messico e Cina. “Il presidente sta distruggendo il nostro mercato”, continua Kevin Scott, coltivatore di soia in North Dakota e segretario dell’associazione di categoria. Scott ha votato con entusiasmo Donald Trump alle elezioni confidando nella deregolamentazione ambientale e nel taglio delle tasse, ma poi è arrivata l’ondata protezionista. I semi di soia sono uno dei prodotti su cui la Cina formalizza oggi i dazi in risposta alle barriere per 34 miliardi di dollari innalzate dal governo americano, e assieme al Messico si tratta del mercato più grande per gli esportatori americani, che hanno già iniziato a sentire gli effetti negativi delle minacce della guerra commerciale sui prezzi. Le misure che dovevano punire i concorrenti sleali, e che contemplavano semmai alcune vittime sacrificali nell’ambito delle big corporation americane, ora si ritorcono invece contro i contadini, gli allevatori, i piccoli industriali in difficoltà e tutti gli altri esemplari di forgotten men che formano l’invincibile base elettorale del presidente. Il popolo di Trump non si sente poi tanto protetto dal protezionismo.

  

I dazi imposti da Trump su acciaio e alluminio, da cui è partita la danza delle mosse e contromosse commerciali, avevano in parte allettato alcuni pezzi dell’industria pesante americana dissanguati dalla concorrenza cinese. La Alliance for American Manufacturing aveva detto che “le tariffe sull’acciaio sono importanti per la crescita e la sopravvivenza dell’industria interna per via delle massicce sfide che la sovrapproduzione globale presenta”, e i timidi segni di una rivitalizzazione domestica si erano riscontrati nell’apertura di alcuni nuovi impianti siderurgici. Le associazioni dei produttori di alluminio, rappresentanti di un mercato molto diverso da quello dell’acciaio, si erano invece subito opposti alle tariffe, anticipando un calo del mercato che si è ben presto materializzato, a danno degli industriali che il presidente aveva promesso di proteggere con i dazi.

  

  

  

Secondo la logica a cascata delle guerre commerciali, Unione europea, Canada, Messico, Cina e gli altri partner commerciali dell’America hanno approvato contromisure di entità simile, e da lì si è passati alle minacce di trasformare la scaramuccia in una guerra totale. Trump agita sempre la minaccia di imporre dazi alle automobili per limitare la concorrenza europea e dare una spinta al mercato interno, ma tutti gli studi dicono che l’innalzamento delle barriere porterà alla perdita di posti di lavoro americani nel settore. I vertici di General Motors hanno spiegato giusto l’altro giorno alla Casa Bianca che in un clima protezionista “l’azienda diventerà più piccola”, mentre si è già consumato lo screzio con l’icona americana Harley Davidson, che sposta ulteriormente la produzione fuori dagli Stati Uniti per essere più vicina ai suoi consumatori globali.

  

  

L’ultimo atto della guerra è il varo, questa mattina, di dazi per 34 miliardi su merci cinesi fra cui macchinari agricoli, parti di automobili e apparecchi biomedicali. Pechino ha risposto con tariffe equivalenti che colpiscono, fra le altre cose, i semi di soia e i Suv. Il paniere dei beni tassati nella disputa globale è così vasto da aver già ingenerato effetti collaterali che l’amministrazione non aveva previsto, ma che avrebbe potuto e dovuto prevedere. Alcuni tagli del maiale, ad esempio, sono stati tassati dal Messico in risposta alle barriere imposte da Trump su acciaio e alluminio, decisione che ha depresso un settore che vive per un quarto sulle esportazioni. Gli allevatori dell’Iowa e delle grandi pianure che hanno spinto Trump alla Casa Bianca ora si trovano a essere le vittime di quella logica protezionista che il presidente, del resto, aveva promesso di mettere in pratica. Un effetto simile si riscontra anche nell’industria casearia, dove i cinesi hanno tassato alcuni mangimi largamente usati in tutto il settore dell’allevamento. “La legge delle conseguenze involontarie è al suo massimo grado”, ha detto Richard Newell, presidente dell’associazione Resources for the Future. Affermazione che vale tanto nel ciclo commerciale quanto nella dinamica politica.