Il minaccioso ritorno della Heimat nella disorientata Germania di oggi

Andrea Affaticati

Le paure legate all'immigrazione spingono il ministero dell’Interno a istituire un dipartimento per “sostenere la coesione sociale e garantire l’equivalenza tra le condizioni di vita”

C’era una volta, “Heimat”, la fortunata serie televisiva di metà anni 80, diretta dal regista Edgar Reitz. Raccontava le vicissitudini, dal 1919 al 1982, di una famiglia che abitava in un piccolo paese, e al tempo stesso quelle della Germania.

 

 

“Heimat” è una parola difficile tra tradurre, come dimostra già l’opera di Reitz, che dal locale e privato passa al nazionale. Dunque non è traducibile con “patria” o “paese natale”, perlomeno non esclusivamente. Come spiegava alcuni anni fa il politologo Werner Patzelt in occasione di un convegno dalla Fondazione Konrad Adenauer a Cadenabbio, il termine indica piuttosto un luogo geografico circoscritto e al tempo stesso dell’anima: “Heimat è per i più quel luogo dove si è cresciuti, dove si sono messe le radici, che continuano ad agire anche se da quel luogo un giorno si è partiti. (…) Oppure un luogo dove si è arrivati anche successivamente, ma del quale ci si sente di far parte”. Per altri, come il grande critico letterario Marcel Reich-Ranicki, nato in Polonia e scampato alle persecuzioni naziste, le parole “Heimat” e “Vaterland” avevano invece lo stesso significato. “Anch’io ho un mio paese, un ‘Vaterland portabile’, una Heimat e di certo non la peggiore che si possa avere: la letteratura, più precisamente, la letteratura tedesca”, si legge in una raccolta di saggi del 2003. Reich-Ranicki si avvaleva in questo caso dell’aggettivo “portativ”, portabile, attingendo direttamente da Heinrich Heine, il quale a sua volta l’aveva mutuato dal francese. Ma se nell’accezione originale “portative” si riferisce alla fugacità del capitale non più vincolato alle frontiere di uno stato, il poeta tedesco se ne avvaleva per la Torah, divenuta dopo l’esilio di Babilonia la “patria portabile” degli ebrei.

 

Già questi due esempi mostrano quanto la parola “Heimat” rivesta un particolare ruolo nella coscienza e consapevolezza nazionale. Nel Dopoguerra e nei decenni a seguire, i tedeschi si erano a lungo sottratti a qualsivoglia manifestazione patriottica o di amore verso la Heimat. Troppo presente ancora l’utilizzo del termine da parte dei nazisti per avanzare pretese sui Sudeti. E solo in epoca più recente, ci si ricorderà dei Mondiali del 2006, ci si era infine sentiti pronti a manifestazioni di orgoglio nazionale non più sospettabile di qualsivoglia nostalgia.

Da quel momento di emancipazione collettiva sono passati 12 anni, e di nuovo il termine Heimat è tornato ad animare il dibattito. Ora però, con una valenza molto più assertiva a volta anche di chiusura verso il prossimo. Il motivo di questo cambiamento è sotto gli occhi di tutti: i migranti, la paura che un numero eccessivo possa stravolgere la Heimat.

E così quello che solo un decennio fa sarebbe parso impossibile, oggi è un fatto compiuto: l’istituzione di un “Heimatministerium” o meglio di un dipartimento del ministero dell’Interno guidato dal capo dei cristianosociali Horst Seehofer.

 

Una novità accompagnata da più di una perplessità. Soprattutto se affiancata alla notizia data qualche giorno fa da Walter Rauhe sulla Stampa, che raccontava dell’allarme lanciato dai servizi segreti interni tedeschi circa il nascere di cooperative agricole gestite da bio-nazi. La foto pubblicata dal quotidiano mostrava uno dei simpatizzanti con una t-shirt sulla quale sopra la sigla del partito di estrema destra Npd si leggeva “Umweltschutz – Heimatschutz”, protezione ambientale, protezione della Heimat.

 

Certo non è nelle intenzioni di Seehofer alimentare simpatie simili. Vuole rassicurare quella parte di tedeschi sconcertati dall’immigrazione e dai proclami della Alternative für Deutschland, (Afd), partito nazionalista che l’autunno scorso anche in Baviera ha ottenuto il 12,4 per cento dei voti. E in Baviera in settembre si terranno le elezioni locali. L’impuntarsi di Seehofer per istituire questo dipartimento potrebbe essere dettato da considerazioni meramente elettorali. Speculazioni sostenute anche dal fatto che di iniziative concrete non si sa fino a ora nulla. “Qual è il suo fine, dunque?” chiede Reiner Klingholz, fondatore e direttore dell’Istituto per la Popolazione e lo Sviluppo con sede a Berlino, in un commento sul tema. I punti indicati da Seehofer circa la sua specifica finalità – sostenere la coesione sociale e garantire l’equivalenza tra le condizioni di vita – li giudica vaghi. “Combattere l’insoddisfazione della popolazione in alcune specifiche regioni? Certo, vi sono molte regioni in Germania che necessiterebbero di maggior sostegno. Solo che, come sancisce la nostra Costituzione, questi provvedimenti sono prerogativa delle regioni e non del governo centrale”. Un tempo si parlava di “Leitkultur”, un termine introdotto dal politologo Bassam Tibi nel dibattito accademico, per indicare un consenso sociale basato su valori europei la cui funzione doveva essere quella di collante tra tedeschi e migranti. Il politico Cdu Friedrich Merz nel 2000 l’aveva a sua volta usato nel dibattito politico in antitesi al multiculturalismo. Solo che il concetto di Leitkultur sfuggiva ai più, mentre quello di “Heimat” arriva dritto al cuore ed è per questo molto amato dai demagoghi.

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