Grandi cartelloni ricordano che parole come “patria” e “dovere” hanno il significato che dà loro l’organo ufficiale del Partito comunista, un senso reale, didascalico e condiviso (Foto LaPresse)

Cuba di miseria e dignità

Fabiana Giacomotti

Il castrismo eterno, le code per la carne. E un modello permanente di branding. Ritrovare l’isola e il suo mito

Sono le undici di sera e la calca è indescrivibile alla Fabrica de Arte Cubano, industria di oli alimentari primi Novecento trasformata qualche anno fa in spazio polifunzionale al Vedado, il quartiere dell’Avana che ospita il municipio di Plaza de la Revolución, la sinagoga, l’hotel Nacional e moltissimo verde che per lungo tempo è stato appunto “vietato” tagliare. Fra le gallerie d’artista, i palchi per i musicisti e il ristorante sul tetto si aggirano come minimo duemila persone, abito da sera oppure shorts e ciabatte di gomma fa lo stesso anzi meglio (“todos son especiales aquí”, ha appena detto con un gran sorriso di compatimento al mio accompagnatore che cercava il privé un buttafuori alto due metri il cui unico compito è di verificare che chi paga l’ingresso, due cuc cioè circa due euro per gli stranieri, una cifra infinitesimale per i locali, non porti armi addosso, certo non che sfoggi mocassini di Gucci o borse Chanel che pure qui venne a sfilare un anno fa e ne fece omaggio a tutte le collaboratrici locali dell’evento).

  

In questo mondo alla rovescia, la grandeur è pari solo alle immense difficoltà economiche, la creatività alla fatica di metterla in pratica 

In mezzo a questa folla che balla facendosi i selfie con una mano e reggendo un mojito con l’altra, sto osservando da dieci minuti un cartello affisso in uno sgabuzzino lungo un percorso espositivo che presenta un nuovo artista al mese ma che ingloba anche le gallerie di nomi di fama internazionale come Carlos Quintana e Enrique Rottenberg. Lo sgabuzzino espone vestiti di tessuti vintage di diversa qualità in stile anni Cinquanta, tagliati maluccio. Il cartello è invece composto nel font tipico del Déco, il “broadway”, è molto elegante e dice cose senza senso: “Prendas. Vestiti. Nella prima metà del Ventesimo secolo, Havana, Parigi e New York erano le capitali mondiali della moda. I capi di El Encanto Atelier portano ai tempi attuali stile ed eleganza come simbolo di identità. Di intesa con persone che possiedono ancora insegne di valore, vi presentiamo questi abiti unici, che possono essere creati o modificati a vostra scelta”. Leggo ancora e ancora, cercando di penetrare il significato di quelle parole che, oltre ad essere false dal punto di vista storico, non rispecchiano in alcun modo la modesta realtà dei capi esposti. Nella prima metà del Novecento, nemmeno New York era ai vertici del sistema della moda di lusso, di couturier cubano di una qualche rilevanza si ricorda solo Luis Estevez, che comunque lavorava a Manhattan. Vivo per la prima volta un caso saussuriano di scissione fra langue et parole. In breve, non riesco a capire se mi trovi in una vera bottega di abbigliamento di cui forse, fra poco, apparirà il proprietario cercando di vendermi un prendisole, o davanti a un’installazione d’arte. Ai miei occhi europei, il riferimento a La Habana come capitale mondiale della moda nella prima metà del Novecento sembra infatti una provocazione di valore politico, qualcosa del genere “l’artista sta invitando l’osservatore a immaginare che cosa sarebbe stata Cuba senza ‘el bloqueo’, l’embargo, partendo dalla sua rappresentazione più evidente e mobile, cioè l’abbigliamento, e la povertà esecutiva dell’opera ne è parte integrante, insieme con i brutti appendini di plastica”. Mi sbaglio. Due giorni dopo, so che quel che ho visto alla Fac non è un’opera d’arte e inizio a domandarmi per quale motivo il Fondo de Bienes culturales, l’organo governativo che sottende a qualunque attività e impresa artistica e culturale del paese, mi abbia invitato insieme grazie all’associazione delle donne imprenditrici e dirigenti, l’Aidda, che qui si è fatta rappresentare dall’energica Margherita Franzoni della Levico Acque e la sua ambasciatrice Elvira Marasco, a tenere un workshop sulla comunicazione di brand, quando è evidente che in materia di storytelling, a Cuba io abbia solo da imparare. Nel meraviglioso mondo alla rovescia di Cuba, la grandeur è infatti pari solo alle sue immense difficoltà economiche, e la creatività alla incredibile fatica di metterla in pratica.

  

La miseria è palpabile perfino nell’odore delle strade, ma nessuno è senza lavoro, nessuno è privo di un tetto sulla testa, pur fatiscente 

Un funzionario pubblico vive con una media di trentadue euro al mese, le pseudo-imprenditrici che il Fondo cubano assiste e finanzia, cioè creative a operatività limitata, possono anche non finire l’abito che avevano in mente perché all’improvviso dai pochi negozi disadorni e dai corrieri che, in qualche modo sul quale è meglio non indagare, introducono merce varia, viene a mancare la fettuccia, il filo e o bottoni e devono attendere quel che arriverà, da dove e come arriverà e spesso senza alcuna conoscenza tecnica e storica del modo più efficace per tagliare e trarre il meglio da quello che arriva e che sono spesso agghiaccianti cascami del nostro mondo ricco e avido. Il risultato è che a Cuba è quasi impossibile vedere moda interessante oltre alle sempiterne guayaberas, pur bellissime benché prodotte in serie, mentre i mercatini per turisti, compreso un brutto capannone costruito all’attracco delle grandi navi da crociera, trabocca di maracas giocattolo, di cappelli di paglia dozzinale e di bisacce di cuoio stampato infinitamente identiche prodotte nelle fabbriche statali. La moda stile Fifties di Cuba, dove Internet è arrivato da un decennio, ha prezzi elevati e per i turisti funziona solo in punti specifici delle città e previo acquisto di una “tarjeta” al costo di tre euro all’ora, è la prova più evidente di quello che accade quando, a una contaminazione culturale straordinariamente ricca per quattrocento anni, vengono sostituiti sessant’anni di propaganda monocorde e l’impossibilità di viaggiare, vedere, scambiare idee e progetti. La moda di Cuba inizia ad avvicinarsi pericolosamente al costume, che è il prodotto dell’immobilità sociale e culturale. Non è un caso che il nuovo presidente Miguel Díaz-Canel, atletico propalatore delle teorie del castrismo e che la gente è del tutto convinta di aver votato (“avevamo dieci candidati, il programma era uguale per tutti: l’ho scelto per il suo curriculum. Quale? Non ricordo”, mi dice la parrucchiera che mi sta pettinando, benissimo, in vista dell’apertura del convegno), in un video diffuso lo scorso anno dai dissidenti cubani è ripreso mentre spiega ai compagni di partito i pericoli dei portali web di notizie indipendenti, definiti “un ostacolo”. I media internazionali, che si sono affannati a osannare la “fine del castrismo”, avrebbero dovuto ascoltare il suo lungo discorso di insediamento per capire che nulla cambierà e che forse, al prossimo giro,  procurarsi le tarjetas della rete mobile Etecsa sarà diventato un gesto sovversivo.

   

La moda di Cuba inizia ad avvicinarsi pericolosamente al costume, che è il prodotto dell’immobilità sociale e culturale 

Nel frattempo, la situazione economica è fragilissima e instabile, a partire dalla questione della doppia valuta che, con la progressiva apertura al turismo e la relativa improduttività statale, in dieci anni ha raddoppiato l’indice di diseguaglianza fra chi lavora per la nazione cubana e chi campa affittando a trenta dollari a notte casas particulares ai viaggiatori, entusiasti dell’esperienza di dormire fra bellissimi mobili coloniali, acqua fredda e reti elettriche ingegnosamente riparate. Ogni tanto salta tutto e via, che divertente stare al buio, purché certi di potersene tornare a casa dopo qualche giorno di brivido. A Trinidad ho visto una fila di donne munite di tessera attendere un’ora in un bugigattolo scuro e spoglio per procurarsi un pezzo di carne come ne avevo scorte una volta sola a Mosca, sulla Arbat, quasi trent’anni fa. Alla Fac, dove le opere d’arte di qualità per l’appunto non mancano e i visitatori stranieri puntualizzano che un posto così neanche a New York ed è assolutamente vero, sabato scorso dal pur ricco menu era impossibile ordinare qualcosa di diverso dai sempiterni riso bianco, fagioli, pollo e gamberetti degli allevamenti locali, quadrinomio altamente calorico e ricco di amidi che è forse all’origine dell’obesità diffusissima e contro la quale il governo sta conducendo una grande campagna nazionale. L’unica volta in cui ho toccato il tema con la giovane guida incaricata di accompagnarci a Villa Clara a visitare il mausoleo di Ernesto Che Guevara “pronto prima ancora che se ne trovassero le spoglie” e dove le custodi sono tutte belle, giovanissime e in calze a rete di pizzo nero, ha osservato che dopo il crollo dell’Urss, quando il Venezuela non era ancora intervenuto a fornire petrolio e beni di prima necessità come adesso non ha più le forze per fare, la gente “andava a piedi con grande beneficio per la salute”.

    

“Nos somos Cuba”: dovunque tu vada, grandi cartelloni ti ricordano che da queste parti parole come “patria” e “dovere” hanno lo stesso significato che dà loro l’organo ufficiale del Partito comunista, la Granma, ed è un senso reale, didascalico e ampiamente condiviso. La miseria è palpabile perfino nell’odore delle strade, ma nessuno è senza lavoro, nessuno è privo di un tetto sulla testa, pur fatiscente; tutti mandano i figli a scuola almeno fino a sedici anni (l’alternativa, d’altronde, è l’arresto), le librerie pubbliche sono tante e frequentate e pulitissime, e tutti godono di un’assistenza sanitaria che, oltre a rappresentare la più grande voce di spesa nel bilancio nazionale, è in effetti fra le migliori conosciute. Miseria e dignità. Alcuni medici universitari italiani di mia conoscenza non si sono fatti scrupolo di richiedere e pagare trattamenti gerontologici ai colleghi cubani; eppure, ho il sospetto che il soggiorno in loco sia il vero e unico motivo per il quale, mentre gran parte dei locali vive immerso nel torpore dell’utopia politica e i primi capitali stranieri vengono investiti nella zona franca del Mariel e nelle joint venture con il governo e il suo braccio operativo, il Grupo Palco, il resto del mondo voglia continuare a vivere la leggenda di Fidel Castro, del Che e del “mì daiquiri en la Floridita” di Hemingway.

    

Raddoppiato in dieci anni l’indice di diseguaglianza fra chi lavora per la nazione cubana e chi campa affittando case ai turisti 

Il rum, il cayo blanco, il sigaro, la musica, l’elegantissimo Club Havana costruito da Fulgencio Batista che, essendo di etnia mista, non aveva accesso a quello degli americani di cui era il fantoccio, lo sculettamento in piazza al ritmo delle orchestrine, tutte vagamente eccezionali. La fiesta movil, i bei ragazzi prestanti, le signorine dolci e disponibili a cui il governo, nel tentativo parzialmente riuscito di arginare la prostituzione, ha impedito da qualche tempo l’ingresso negli alberghi. Cuba è un modello permanente di branding. La statua di John Lennon seduto su una panchina a cui un gentile signore inforca un paio di occhiali da sole se volete scattarvi un selfie; il calco in bronzo di “Papa”, appoggiato al bancone del Floridita per uguali scopi di auto-celebrazione, rappresentano un’attrattiva irresistibile che europei e americani, tantissimi e molto meno circospetti di quanto ci si potrebbe attendere visto il clima da nuova guerra fredda instaurato dal presidente Usa Donald Trump (“in famiglia siamo conservatori da generazioni, ma quest’uomo ci porterà alla rovina”, mi dice un avvocato della Virginia arrivato ufficialmente in missione di studio del sistema legale cubano),  non vogliono assolutamente perdere. L’unica vera impresa di moda dalla caratura e soprattutto dalle potenzialità internazionali che mi sia capitato di incrociare, Clandestina, vende nel mondo t shirt con uno slogan che è uno stato mentale: “Actually, I’m in Cuba”. Le produce in una ex fabbrica di divise scolastiche a un’ottantina di chilometri dall’Avana e sull’isola ne vende poche. Quelle che potete ordinare sul web sono infatti realizzate altrove e da lì spedite su mandato e controllo della piccola impresa cubana che, come di prammatica, ha ottimi rapporti con il Fondo de Bienes Culturales e la sua fitta rete di architetti, restauratori, idealisti a vario titolo. Girare per le zone restaurate dell’Avana vecchia, fra quel barocco splendidamente recuperato senza insegne pubblicitarie a reclamarne il finanziamento, o nuovi negozi di moda di massa a deturparne le facciate, attiene al miracolo ed è un’esperienza a tratti commovente.

    

Per tanti aspetti, e perfino nel suo stato di regime militare, Cuba rappresenta la purezza di un mondo che non ha ancora ceduto alle regole del consumismo e dell’economia di massa, che considera la lettura un intrattenimento preferibile alla televisione (dove, d’altronde, c’è ben poco da vedere) e il possesso di un guardaroba grande come una stanza del tutto inutile, anzi vergognoso. Quasi si avrebbe voglia di respingerle, quelle navi cariche di turisti sbracati e vocianti che lasciano lattine vuote ovunque mentre Cuba non ha ancora imparato a riciclarle mentre l’amica Diana Battaggia, direttrice dell’Unido, l’organizzazione delle Nazioni Unite per lo Sviluppo Industriale, si sforza da anni, cioè con le tempistiche locali, di sviluppare un progetto di packaging sostenibile che permetta all’isola di esportare almeno in Europa la sua meravigliosa frutta e non intende demordere. Di Cuba non vogliamo perdere il mito, che è tutto nostro. Hasta siempre.

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