La regione della Ghouta sotto attacco martedì. Foto LaPresse

I due livelli della guerra contro Assad

Daniele Raineri

Il Pentagono calibra l’intervento, né troppo né troppo poco. Il generale russo Gerasimov sapeva tutto un mese fa

Roma. C’è da dire che il presidente americano Donald Trump parla dello scenario siriano in un format finalmente comprensibile a tutti: “Preparati Russia, i nostri missili belli e nuovi e smart stanno arrivando – ha scritto in un tweet oggi nella mattinata americana – Non dovevi metterti con l’Animale che ammazza con il gas, che uccide il suo popolo e ci si diverte pure”. Il messaggio presidenziale fa parte di un’escalation di minacce facili che Russia e America si sono scambiate nelle ultime ventiquattr’ore, ma gli aspetti pratici dell’intervento erano ancora da definire, come ha detto il capo della Difesa americana Jim Mattis. Più passano le ore e più il lavoro degli analisti del Pentagono che devono scegliere i bersagli giusti da colpire durante l’annunciata azione punitiva contro il governo del presidente Bashar el Assad in Siria diventa complicato. Se l’intervento fosse troppo blando si ripeterà l’insuccesso sostanziale dell’aprile 2017, quando l’Amministrazione Trump lanciò una bordata di 50 missili Tomahawk contro la base militare di al Sheyrat, uccise sei soldati siriani (i russi avvertiti in anticipo erano andati via) e non ottenne l’effetto di deterrenza che sperava, perché un anno dopo il mondo guarda a una situazione di stallo identica. Se invece l’intervento fosse troppo duro metterebbe a repentaglio la tenuta del presidente Bashar el Assad sul paese e non è quello che l’Amministrazione Trump vuole – a dispetto di quello che dicono i propagandisti a cui piace seminare panico sui social media. Inoltre c’è il rischio che l’attacco punitivo colpisca anche militari russi presenti in Siria e anche questo è un esito che il Pentagono non vuole, perché c’è il rischio di un’escalation. Insomma, il criterio base che guida gli analisti è che i missili servono a stabilire un principio di deterrenza, questo: Assad non deve usare più le armi chimiche contro i civili siriani altrimenti sarà colpito da un intervento esterno. I missili non servono a scatenare una guerra americana con la Russia in medio oriente.

  

  

  

I bersagli siriani e i loro alleati si stanno spostando o comunque tentano manovre diversive: la guarnigione di al Bukamal, al confine con l’Iraq, ha ammainato la bandiera siriana e issato quella russa. Il gruppo libanese Hezbollah ha evacuato le sue basi ad al Qusayr, sul confine libanese, e nell’area di Homs. L’aviazione siriana sta spostando i suoi pezzi più pregiati nella base russa di Hmeimim, vicino Latakia, la stessa dove a dicembre il presidente russo Vladimir Putin annunciò per la terza volta il ritiro della Russia dalla Siria.

   

Le undici navi russe alla fonda nel porto di Tartous hanno tutte preso il largo. Il canale multilingue dell’informazione russa su internet, Sputnik, ha confermato che la famiglia Assad non ha lasciato la Siria, per rispondere a chi dice che il presidente siriano ha abbandonato il palazzo presidenziale di Damasco.

  

Il tweet di Trump rispondeva a una minaccia diretta che due giorni fa era stata fatta dall’ambasciatore russo in Libano: “Abbatteremo tutti i missili americani e faremo fuoco contro le postazioni di lancio”, quindi contro le navi americane, ma soprattutto contro la stessa minaccia fatta già il 13 marzo dal capo di stato maggiore russo, Valery Gerasimov. Il generale immaginava con 26 giorni di anticipo che ci sarebbe stata una strage con armi chimiche e metteva le mani avanti contro la reazione americana. Preveggenza? Le parole di Gerasimov, rilanciate dai cultori della teoria della false flag, tradiscono che il comando russo e il comando siriano a Damasco erano in disaccordo sulla tattica per espugnare l’ultima enclave ribelle di Damasco, Duma, una cittadina più o meno grande come Sirte in Libia, ma difesa da ottomila combattenti del gruppo Jaish al islam. Prendere Sirte, dove i combattenti dello Stato islamico erano al massimo duemila, richiese sei mesi di tempo e migliaia di perdite. I russi erano impegnati in un negoziato laborioso con il Jaish al islam, che però si era arenato proprio il giorno prima dell’attacco con armi chimiche. Forse Gerasimov sapeva questo: che gli assadisti erano pronti a forzare la mano agli assediati con le armi non convenzionali. Nella Ghouta, quindi vicino all’area della strage di sabato, ieri è apparso davanti alle telecamere Ali Akbar Velayati, consigliere della Guida suprema iraniana Ali Khamenei, e ha minacciato presto una rappresaglia contro Israele, colpevole di avere ucciso sette Guardie della rivoluzione vicino Palmira durante un raid domenica notte. C’è la possibilità che Israele e Iran guardino a questa crisi internazionale come all’ennesima opportunità per regolare i conti fra loro in Siria e si osservano da in mezzo al polverone alzato dai loro partner.

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  • Di Genova. Nella redazione del Foglio mi occupo soprattutto delle notizie dall'estero. Sono stato corrispondente dal Cairo e da New York. Ho lavorato in Iraq, Siria e altri paesi. Ho studiato arabo in Yemen. Sono stato giornalista embedded con i soldati americani, con l'esercito iracheno, con i paracadutisti italiani e con i ribelli siriani durante la rivoluzione. Segui la pagina Facebook (https://www.facebook.com/news.danieleraineri/)