L'Università di San Pietroburgo

Il #MeToo in Russia prende pieghe strane e va dritto contro il macho in chief

Anna Zafesova

I manifestini all’Università di San Pietroburgo

Milano. “Le donne non devono fare politica”. “Il cervello di una dottoranda è ossessionato dalla ricerca di un marito, non è in grado di comprendere il postpositivismo”. “Questa monografia sulla guerra è stata scritta da una donna, però stranamente è ottima”. I manifestini con le frasi dei professori sono apparsi nelle aule e nei corridoi del dipartimento delle Relazioni internazionali dell’Università di San Pietroburgo alla vigilia dell’8 marzo, con tanto di nome e cognome dei docenti che le avevano pronunciate. I professori l’hanno buttata sullo scherzo, ma la dottoranda che ha affisso i manifestini, e che ai giornalisti di Meduza.io ha dato solo il suo nome, Yulia, denuncia un’atmosfera di pregiudizio difficile da sopportare: “A un seminario ci hanno detto che invece di studiare la politica e le relazioni internazionali dovremmo fare tre figli, per aiutare il paese in questi tempi difficili”.

 

Lo scandalo all’Università di San Pietroburgo – una delle più prestigiose della Russia, quella dove Vladimir Putin è stato reclutato nel Kgb, e quella che figura nell’inchiesta su Cambridge Analytica, – è forse la prima rivolta contro il maschilismo. La facoltà di Relazioni internazionali ha tantissime studenti e docenti donne, ed è addirittura guidata da una donna, Irina Novikova, uno stato delle cose tipico di un paese dove, grazie alla emancipazione sovietica, quasi tutte le donne lavorano a tempo pieno, anche in settori molto “maschili”, ma le posizioni di comando sono quasi tutte in mano agli uomini, e la sprezzante condiscendenza verso le colleghe è la norma. “Alla facoltà ci dicono che il massimo delle aspirazioni per noi sarebbe sposare un diplomatico”, racconta Yulia. Le stesse docenti condividono questa visione “maschilista”, o se non altro la tollerano.

 

Per le nuove generazioni però qualcosa sta cambiando, e due giornaliste parlamentari hanno denunciato il deputato Leonid Sluzky, presidente del comitato Esteri della Duma, per pesanti molestie sessuali. In un paese che ha organizzato manifestazioni in difesa di Harry Weinstein – a una di queste ha partecipato, nuda, anche la escort Nastia Rybka, che ora promette all’Fbi rivelazioni scottanti sui contatti degli oligarchi putiniani con il team di Trump – la denuncia ha provocato più imbarazzo del fatto stesso. La commissione per l’Etica della camera non aveva nessuna idea su come maneggiare il caso. Dopo aver ascoltato le giornaliste raccontare di come Sluzky le chiudeva nel suo ufficio per infilare la mano sotto le gonne, i deputati hanno stabilito di non avere elementi per procedere, ma in compenso hanno accusato le due donne di aver agito in maniera “selettiva, faziosa e premeditata” per danneggiare con lo scandalo la campagna elettorale di Putin.

 

I media vicini all’opposizione hanno richiamato i loro cronisti parlamentari dalla Duma, in un boicottaggio di protesta. Il neonato #MeToo russo è subito diventato antigovernativo, in un paese il cui presidente promuove i “valori tradizionali” e complimenta il suo collega israeliano accusato di stupro (“Ci ha stupiti, chi l’avrebbe mai detto che poteva andare con dieci donne?”). I video messi online dalla escort Nastia, con oligarchi e ministri che discutono le donne della politica americana in termini che farebbero arrossire i camionisti del Midwest, sono sintomatici di un mondo dove il machismo è sinonimo di potere. E l’instancabile Alexey Navalny ha tirato fuori il dossier Sluzky: deputato dal 1999, ha messo nella sua dichiarazione due Bentley (intestate alla moglie) e una Mercedes S Maybach, a bordo della quale in meno di un anno ha accumulato 835 multe (mai pagate) per guida contromano e superamento del limite di velocità. Un pericolo pubblico, ma l’impunità è il vero privilegio della nomenclatura: il leader del partito di Sluzky, Vladimir Zhirinovsky, ha più volte aggredito fisicamente le giornaliste, e ha minacciato una cronista incinta di “farla stuprare”. Come dice una battuta che gira sui social russi, Weinstein dovrebbe imitare Depardieu e chiedere la cittadinanza russa.

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