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Chi ispira Putin

Giulio Meotti

Li cita e li distribuisce fra i collaboratori. Sono i libri dei filosofi amati al Cremlino. Teorizzano lo scontro fra Russia e occidente

Ai tempi di Boris Eltsin, l’accademico Nikita Moisseev, uno dei mostri sacri della scienza russa, disse: “Nessun paese può vivere senza ideologia, altrimenti precipita nel caos”. Era stato appena buttato via come un vestito stretto il socialismo di Gorbaciov, ma anche l’emulazione dell’occidente, affogata nel disastro delle riforme, nei tassi alcolici e in quella che il Nobel della Letteratura Iosif Brodskij definì “xenofobia uterina” della Russia immensa e continentale. Ci avrebbe pensato Vladimir Putin, che domani dovrebbe ottenere un quarto mandato da presidente, a trovare l’ideologia vincente.

 

Qualche anno fa, la televisione russa ha trasmesso un documentario di due ore sul decennio e mezzo di Putin come leader del paese. Il messaggio è che l’ex agente del Kgb ha salvato la Russia dalle forze della distruzione sia interne (cecene e oligarchiche) sia esterne (l’influenza occidentale). Nel film, Putin viene ritratto non solo come salvatore politico. La sua leadership è stata anche importante per il risveglio spirituale della Russia e della sua gente. Sei minuti del panegirico sono dedicati a come Putin ha riportato in patria i resti di un oscuro filosofo morto in esilio settant’anni prima, Ivan Ilyin.

 

Qualche anno prima, in una scena elegiaca e surreale, Putin, cosacchi, monarchici con le icone dello zar Nicola II, ex comunisti, ministri ed emigrati vennero a rendere omaggio a Ilyin e al generale zarista Anton Denikin nel monastero di Donskoi, dove in epoca sovietica le celle dei monaci erano state trasformate in appartamenti comunali e un crematorio usato per trasformare le vittime dei bolscevichi in cenere.

 

Per capire Putin, che sembra ormai estendere ovunque la sua lunga mano, da Salisbury, in Inghilterra, alla Siria, si deve comprendere il suo filosofo preferito, lo scrittore Ivan Ilyin, all’origine di quella Road to unfreedom che dà il titolo al nuovo libro di Timothy Snyder dedicato al presidente russo. Tutti, da Walter Laqueur a Peter Conradi, ovvero gli storici che hanno scritto del putinismo, concordano che Ilyin è il cuore intellettuale della ventennale presidenza Putin.

 

Ilyn è il filosofo che ha influenzato anche un altro Nobel come Aleksandr Solgenitsin. La sua visione dell’identità nazionale russa sembra oggi fatta su misura per il putinismo come forza contro-globalista nel mondo. Come ha scritto Michel Heller nella sua “Storia della Russia”, lo scopo di questa ideologia è di “reagire alle sfide economiche dell’Europa occidentale con una risposta ideologica, trasformando la debolezza economica in un segno di superiore potenza spirituale, e morale”. La Russia come nuova Bisanzio, ultima Roma fra l’Europa e “il turco”.

 

Per Ivan Ilyin, il filosofo preferito dal presidente, la Russia era stata contaminata dal virus occidentale

La Russia come civiltà a sé, un misto fra la cultura bizantina cristiana e la forza mongola asiatica

Non sorprende che Putin abbia inserito le opere di Ilyin in una lista di letture per i membri del partito “Russia Unita”: Ilyin era critico nei confronti della democrazia occidentale e voleva un governo forte in accordo con l’eredità autocratica della Russia. Non credeva nella libertà religiosa come la maggior parte degli occidentali intende oggi questo termine, sostenendo invece il ruolo unico nella formazione della società russa che ha avuto la chiesa ortodossa. Fu ostile alla borghesia occidentale quanto ai bolscevichi. La liberal-democrazia, diceva, ha “indebolito e appassito le anime umane” facendo spazio a “ridicoli, cattivi e avari piani perversi portati avanti da demagoghi totalitari di sinistra e destra”. L’ascesa di una classe di professionisti – giornalisti e avvocati – è andata di pari passo con un massiccio programma di scristianizzazione, ripeteva Ilyin.

 

Quando si considera la prospettiva di Ilyin, vale la pena di ricordare le sue esperienze nella Russia del primo Novecento. Prima del suo viaggio sulla cosiddetta “nave dei filosofi” – su cui centinaia di dissidenti erano stati caricati per l’esilio in occidente – Ilyin fu vittima di perquisizioni da parte della Cheka, la polizia segreta bolscevica. Quando fu esiliato dalla Russia dai comunisti nel 1922, Ilyin si rifugiò per un periodo in Germania, e grazie alle sue impeccabili credenziali anticomuniste gli fu concesso un incarico dal governo tedesco. Fu costretto a lasciare la Germania e a vivere il resto della vita in Svizzera. Più tardi descrisse i nazisti come coloro che avevano “percorso la via dell’anticristo.”

 

Come un altro fervente patriota, Fodor Dostoevskij, Ilyin credeva che la malattia della Russia moderna fosse di origine europea: “L’occidente ha esportato questo virus anticristiano in Russia… Dopo aver perso il nostro legame con Dio e la tradizione cristiana, l’umanità è stata moralmente accecata, presa dal materialismo, dall’irrazionalismo e dal nichilismo… Per superare la crisi morale globale, dobbiamo tornare a valori morali eterni, cioè fede, amore, libertà, coscienza, famiglia, patria e nazione, ma soprattutto fede e amore”. E’ uno dei brani ripetuti da Putin. Il presidente russo ha una particolare predilezione per l’elegia.

 

Nella sua analisi del conservatorismo russo e dell’influenza di Ilyn su Putin, lo studioso canadese Paul Robinson nota che la teoria del governo di Ilyin prevede “una dittatura limitata, basata sulla legge”, una in cui uno stato sovrano è “potente, unificato e libero dall’influenza di potenze straniere”, ma “non cerca di controllare ogni aspetto della vita”. E’ puro putinismo. Non è un caso che Putin sia stato influenzato da molti scrittori emigrati, russi che vissero in occidente, che ne vennero attratti ma che lo rifiutarono, come Ilyin appunto, ma anche il linguista Nikolai Trubetskoi (1890-1938), l’economista e geografo Piotr Savitsky, il primo ministro zarista Petr Stolipyn e il filosofo Nicolaj Berdajev (visse a Parigi dopo l’ascesa dei bolscevichi), ovvero i grandi ideologi del conservatorismo russo.

 

Molti di questi esiliati in Europa furono gli artefici dell’Eurasianesimo. Iniziò come teoria linguistica, mostrando che i modelli tonali russi avevano più in comune con le steppe dell’Asia interna (“Eurasia”) che con gli europei. Per Trubetskoi e il suo collaboratore illustre, Roman Jakobson, le strutture linguistiche avevano profonde affinità di cultura e coscienza, rendendo visibile, all’occhio allenato, le vere frontiere di una grande civiltà eurasiatica che aveva amalgamato dozzine o anche centinaia di tribù in una sola “Zona di convergenza”. La Russia doveva staccarsi da un’Europa in declino e formare una propria coscienza. Fu teorizzato negli anni Venti del Novecento, ma è quello che avrebbe adottato Putin un secolo dopo. Secondo Neil MacFarlane, docente a Oxford, in tutti vibra l’idea che l’occidente sia “iniquo”.

 

Fra le letture preferite da Putin c’è Lev Gumilev, l’unico figlio di due poeti illustri, Anna Achmatova e il suo primo marito, Nikolaj Gumilev, fucilato dalla Ceka leninista. Lev era predestinato a diventare un ostaggio e a subire, a causa delle origini, infinite angherie: un primo arresto nel 1935, un altro nel 1938, un terzo nel 1949 (disgrazia che piegò Achmatova) e quindi la detenzione in un lager fino al 1956. Gumilev fu il soggetto di quella che è una delle più grandi poesie del XX secolo, “Requiem” di Anna Achmatova. Fu nel 1938, al culmine del terrore di Stalin, quando Lev, studente dell’Università di Leningrado, fu arrestato nel suo dormitorio e spedito in un campo di lavoro artico. Per due anni, sua madre ha aspettato in fila e ha scritto lettere a funzionari di polizia che li supplicavano di dirle il destino di suo figlio. La sua lotta è immortalata in “Requiem”, la sua opera più famosa.

 

Gumilev, specializzato in civiltà antiche, orientalista ed etnologo, fu sempre impegnato nella rivalutazione positiva del ruolo avuto dai popoli mongoli nella storia russa. Secondo Gumilev, il mondo intero era contagiato dall’“Antisistema”, a eccezione dell’antica Rus. Regno dell’Antisistema è oggi l’Europa. E’ l’utopia degli slavofili, che credono nel glorioso avvenire della sola Russia, nella superiorità della chiesa ortodossa e del popolo russo, predestinato dalle sue qualità etico-spirituali a un ruolo dominante, anche con l’uso della forza.

 

Durante un annuale discorso di Putin all’assemblea federale, fra i lampadari di cristallo e i dignitari dagli eleganti abiti firmati, le tonache e i turbanti, Putin ha detto: “Tutto dipenderà principalmente dalla volontà di ogni nazione, dalla sua energia interiore, che Lev Gumilev ha definito passionarnost”. Questa strana parola, passionarnost, significava poco per i non iniziati; ma per chi aveva familiarità con il nazionalismo russo voleva dire molto. E’ traducibile come “capacità di soffrire”. Ha allusioni al Nuovo Testamento e alla crocifissione, che era stata immaginata da Gumilev durante i suoi quattordici anni nei campi di prigionia in Siberia. Nel 1939, mentre scavava il Canale del Mar Bianco e ogni giorno guardava i detenuti morire di sfinimento e ipotermia, Gumilev inventò la passionarnost. La grandezza che sta nel sacrificio.

 

Gumilev divenne un rinomato esperto delle steppe dell’Eurasia interiore: gli Sciti, gli Xiongnu, gli Unni, i Turchi, i Khitai, i Tanguti e i Mongoli. La loro storia non ha conosciuto l’Illuminismo, ma un ciclo infinito di migrazione, conquista e genocidio. Ogni centinaia di anni, i nomadi sono stati spazzati via dalle steppe, saccheggiando i fiorenti regni dell’Europa, del medio oriente o dell’Asia, per poi sparire nella nebbia della storia con la stessa rapidità con cui erano sopraggiunti. I vincitori di queste lotte non erano le società che guidavano il mondo in tecnologia, ricchezza e ragione. Invece, per Gumilev avevano passione. E in questa idea c’era il germe di un nuovo nazionalismo russo. L’Illuminismo, sotto forma di teorie sociali europee avanzate, aveva portato la Russia alla rovina, mentre c’era un’armonia nella natura selvaggia degli Unni, dei Turchi, dei Mongoli.

 

Gumilev ha fornito l’ispirazione per l’Unione eurasiatica di Putin, una visione presentata per la prima volta nell’ottobre 2011, una settimana dopo che Putin ha annunciato di tornare come presidente della Federazione. Gumilev affermava che l’impulso di identificarsi con una nazione è così pervasivo che deve essere una parte essenziale della natura umana.

 

Putin non legge e cita solo questi filosofi; vuole che anche gli altri li leggano. Il Cremlino ha regalato tre libri ai governatori regionali nel Natale del 2013: “La filosofia della disuguaglianza” di Berdjaev, “La giustificazione del bene” di Vladimir Solovyov e “I nostri compiti” di Ilyin. Entrare nel mondo dei filosofi preferiti di Putin significa varcare la porta di un mondo fatto di sofferenza, di melodramma, di misticismo, di complotti e di visioni escatologiche. “Confidiamo e siamo fiduciosi che verrà l’ora in cui la Russia sorgerà dalla disintegrazione e dall’umiliazione e inizierà un’epoca di nuovo sviluppo e grandezza”, ha scritto Ilyin. Un’autocrazia nazionalista quasi teocratica destinata a svolgere un ruolo espansivo sulla scena mondiale.

 

Citando Berdjaev, Putin parla della difesa dei valori tradizionali per scongiurare il “caos morale”. Dice che sta difendendo la distinzione tra bene e male, persa nel mondo esterno. Solovyov invece sosteneva che, poiché la Russia si trova tra l’occidente cattolico e l’oriente non cristiano, ha una missione storica di unità. La Russia trascenderebbe la laicità e l’ateismo e creerebbe un regno spirituale. “La concezione messianica russa”, scrisse Berdjaev, “esalta sempre la Russia come un paese che avrebbe aiutato a risolvere i problemi dell’umanità.”

 

Fra le sue letture c’è Gumilev, il figlio di Anna Achmatova, che nel Gulag teorizzò il sacrificio come strada per la grandezza

Da Vladimir Solovev a Nikolai Berdjaev, Putin si abbevera al conservatorismo russo per costruire la sua opposizione all’occidente

La Russia come fortezza assediata. Nel suo saggio del 1948 sullo smembramento della Russia, Ilyin descrive il popolo russo come il “nucleo di tutto ciò che è europeo-asiatico e, quindi, di equilibrio universale.” L’occidente è invece guidato da “un piano di odio e brama di potere.” Ilyin teorizzava che la ricerca di una rinata identità russa sarebbe stata guidata da un’élite culturalmente e spiritualmente rinnovata, di cui Putin si ritiene oggi esponente. I riferimenti di Putin a Ilyin nei discorsi presidenziali a partire dal 2005 sono costanti.

 

Su richiesta del regista Nikita Mikhalkov, i resti di Ilyin sono stati rimpatriati da Putin dalla Svizzera e reinterrati a Mosca. “Questa è la vera fine della guerra civile”, disse Mikhalkov, intendendo quella che scoppiò fra bianchi e rossi dopo la rivoluzione del 1917. Il ritorno del corpo di Ilyin da parte di Putin fu celebrato come la massima espressione della riconciliazione e della fine delle fratture tra la Russia imperiale e cristiana e quella sovietica e comunista. Proprio come il corpo di Ilyin si era riunito al suolo russo, due epoche della storia russa si erano simbolicamente abbracciate.

 

Nel maggio 2009, Putin ha compiuto un pellegrinaggio alla tomba di Ilyin al Monastero Donskoi di Mosca per sottolineare e rafforzare la sua devozione al pensatore che, fatalmente, previde e teorizzò lo scontro fra la Russia e l’occidente. La popolarità di Ilyin è enorme oggi anche tra i membri della chiesa ortodossa, una stampella del potere putiniano; per loro è un “filosofo religioso”, che ha predicato, durante tutta la sua vita di esilio, un “rinnovamento” e una “rinascita” della patria. 

 

Ilyin nacque nel 1883 da una famiglia aristocratica a Mosca, studiò legge e nel 1922 fu cacciato dai bolscevichi in Europa, insieme a 160 intellettuali e accademici considerati nemici ideologici del regime comunista. Ha vissuto in Germania, in Francia, e dopo la Seconda guerra mondiale in Svizzera, dove è morto.

 

Ilyin era un sostenitore dell’idea che la Russia era una civiltà a sé stante, un misto tra la cultura bizantina cristiana e la forza politica mongola asiatica. Negli anni Cinquanta, Ilyin scrisse un saggio intitolato “Che cosa comporta lo smembramento della Russia per il mondo”, in cui predisse il crollo dell’Unione Sovietica e spiegò come la Russia potesse essere preservata dall’influenza corruttrice dell’occidente. Aveva una visione apocalittica: dopo il crollo dei sovietici, i tedeschi avrebbero annesso l’Ucraina e gli stati baltici, gli inglesi avrebbero preso il controllo del Caucaso e dell’Asia centrale, e il Giappone avrebbe attaccato i russi dall’Estremo Oriente. La sua principale preoccupazione era l’Ucraina, un territorio che considerava storicamente e culturalmente russo (anche qui si odono forti echi putiniani).

 

Ilyin mise in guardia contro il linguaggio occidentale. Le parole “democratizzazione”, “liberalizzazione”, “libertà” erano solo mezzi per distruggere l’unità e lo spirito della civiltà russa. Il potere centrale che immaginava non era totalitario, ma piuttosto una autocrazia simile a quella della vecchia monarchia russa. Sotto questo regime ci sarebbe stata libertà, ma non anarchia, e il potere centrale, come il leviatano di Hobbes, avrebbe servito il popolo, assicurando l’ordine e la pace sociale.

 

E’ fra le pagine arroventate e impetuose di questo gruppi di esiliati e deportati che si trova il segreto del ventennio putiniano.

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  • Giulio Meotti
  • Giulio Meotti è giornalista de «Il Foglio» dal 2003. È autore di numerosi libri, fra cui Non smetteremo di danzare. Le storie mai raccontate dei martiri di Israele (Premio Capalbio); Hanno ucciso Charlie Hebdo; La fine dell’Europa (Premio Capri); Israele. L’ultimo Stato europeo; Il suicidio della cultura occidentale; La tomba di Dio; Notre Dame brucia; L’Ultimo Papa d’Occidente? e L’Europa senza ebrei.