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C'è un disegno del mondo dietro alla guerra commerciale aperta da Trump

Un progetto nazionalistico il cui impatto negativo sarà interno. Una lezione per i piccoli Trump nostrani. Parla il professor Sabino Cassese

Professor Cassese, il presidente Trump non sa che, per salvare 33.500 posti nella siderurgia del suo paese mette in pericolo 179.300 posti di lavoro in altri settori?

Pur nella sua rozzezza, il presidente americano sa che la prosperità del suo paese dipende anche dal commercio. Non vuole limitarlo. Si muove guidato da un disegno, di cui è prova la sua decisione di prevedere variazioni dei dazi introdotti su acciaio e alluminio importati negli Stati Uniti, di selezionare i paesi le cui esportazioni sono colpite dai dazi (infatti, Canada, Messico e Australia sono già stati esentati dal pagamento dei dazi generali imposti), di prevedere esenzioni per prodotto su richiesta delle imprese americane che si ritengono danneggiate dai dazi o che dimostrano che l’esportazione da alcuni paesi non minaccia la sicurezza degli Stati Uniti. Vede il rinnovato ruolo centrale dello Stato e, quindi, di Trump? Il disegno che anima l’Amministrazione americana è stato illustrato dal ministro del Commercio degli Stati Uniti: Trump vuole spingere altri paesi a fare lo stesso, con un “effetto domino” positivo, in modo da far trovare sola la Cina con la sua sovrapproduzione di acciaio.

 

Ma qual è il disegno?

Trump vuole ritornare al bilateralismo. E lo vuole per uno scopo chiaro: ridare voce agli stati. Questi ultimi diventano attori secondari o almeno comprimari a causa del multilateralismo, che comporta un potere sovranazionale, che deriva dall’Organizzazione mondiale del commercio e dal suo sistema di risoluzione indipendente delle dispute. Insomma, invece di generali o di ambasciatori, un sistema multilaterale come quello definito nel 1994 si rimette ai giudici come decisori di ultima istanza. Sostituisce le spade dei militari e le feluche degli ambasciatori con le toghe dei giudici. Quindi, un disegno nazionalistico o sovranista, prima che protezionistico.

 

Ora che obiettivi e disegno sono chiariti, proviamo a ritornare ai fatti.

Cominciando dalla storia. Già cinque presidenti americani, tre democratici e due repubblicani, hanno imposto limiti al commercio, con dazi o quote. Ma l’hanno fatto solo rispetto alle importazioni negli Stati Uniti provenienti da alcuni paesi, non in termini generali (salvo esenzioni), come Trump. Inoltre, alcune di queste limitazioni sono state dichiarate illegali dalle corti dell’Organizzazione mondiale del commercio e i presidenti americani hanno dovuto ritirarle. Quindi, gli americani sono andati a sbattere contro qualcosa che essi stessi avevano caldeggiato un quarto di secolo fa, un meccanismo giudiziario di risoluzione delle dispute, che non passa per accordi (che pure vanno preliminarmente tentati), ma mette i conflitti nelle mani di organismi indipendenti dagli stati.

 

Possibile che così alla leggera l’amministrazione americana rompa le regole del commercio mondiale che essa stessa aveva in qualche misura voluto?

La situazione è complicata. Mi segua. Il 16 febbraio scorso il Dipartimento del commercio sottopone un rapporto al presidente, invocando l’eccezione della sicurezza nazionale, prevista dai trattati del commercio per consentire deroghe al principio per cui non bisogna porre barriere tariffarie o non tariffarie al commercio mondiale. Su questa base, il presidente annuncia dazi del 25 per cento sull’acciaio importato negli Stati Uniti e del 10 per cento sull’alluminio. La motivazione della sicurezza nazionale appare “ictu oculi” pretestuosa. Invece, come si può vedere nella foto scattata all’atto della firma, la preoccupazione è quella dell’occupazione. La siderurgia americana ha 81 mila addetti. La diminuzione temuta è del 35 per cento (del 50 per l’alluminio). Noti che la misura restrittiva delle esportazioni riguarda anche paesi alleati degli Usa.

 

Quale sarà l’impatto di questa misura?

Paradossalmente, il primo impatto negativo sarà interno. C’è un problema interno di distribuzione di poteri, perché il presidente agisce in questo campo sulla base di deleghe di potere da parte del Congresso (Trade Promotion Authority), e il Congresso potrebbe non rinnovare questo potere al presidente alla scadenza, che è prossima. C’è poi, il danno enorme prodotto dai dazi all’economia americana, e più precisamente a quella parte di essa che consuma acciaio e alluminio (costruzioni, automobile, aerospaziale, bevande). Questo mostra che le questioni commerciali innescano conflitti multipolari. Il presidente deve dare ascolto all’interesse nazionale dei produttori di acciaio e di alluminio, oppure all’interesse nazionale delle imprese che consumano questi prodotti, e che debbono ora comprarlo nel proprio paese a prezzi più alti? Come si definisce, in questi casi, l’interesse nazionale?

 

Passiamo ora all’impatto fuori degli Stati Uniti.

Anche qui si innescano tendenze duplici. C’è, innanzitutto, il danno diretto: si calcola che solo nell’Unione europea siano a rischio 160 mila posti in un settore come quello dell’acciaio che presenta una sovrapproduzione mondiale. C’è, poi, un danno indiretto: quello derivante dalla “deflection”, la diversione dei flussi commerciali verso l’Europa: acciaio cinese finora esportato negli Usa potrebbe prendere la via dell’Europa, dove i produttori locali sono già in difficoltà (pensi solo all’Ilva).

 

Come reagisce l’Unione europea?

A parte la solita fastidiosa insularità britannica (il Regno Unito, che fino al 2019 fa parte dell’Unione, ha fatto passi autonomi), l’Unione sta preparando le sue mosse. Nell’ordine: esenzioni, per avere la stessa clausola di Canada, Messico e Australia; poi, negoziati, ad esempio, per sostituire dazi con quote, in modo da rassicurare i produttori americani (e indirettamente Trump); in terzo luogo, contestazione della natura delle misure americane, che non sono dettate da esigenze di sicurezza nazionale, ma da esigenze di salvaguardia (e quindi debbono esser proporzionate e provvisorie); infine, “retaliation”, cioè rappresaglia, un mezzo consentito dall’Organizzazione mondiale del commercio. L’Unione ha già identificato un centinaio di prodotti americani, scelti specialmente tra quelli le cui fabbriche sono negli stati repubblicani degli Usa, sui quali imporre dazi quale misura di ritorsione. Le regole del commercio internazionale consentono questa misura a condizione che sia proporzionata e controllata dal giudice del commercio. La ritorsione sarebbe efficace e proporzionata perché è stato calcolato che sarebbe per un valore di 2,6-2,8 miliardi di dollari contro le misure di Trump, che hanno un valore di circa 6 miliardi. Ma è chiaro che così si innesca una guerra nella quale si potrebbe non finire mai.

 

E il “Dispute Settlement Body” dell’Organizzazione mondiale del commercio riuscirebbe a reggere una pressione così grande?

Buona domanda. Anche perché gli Stati Uniti lo stanno boicottando, non nominando giudici. Qui si innesta il problema che ho toccato prima. I “realisti”, tra cui Kissinger, negli Stati Uniti, sono tutti figliolini di Carl Schmitt, hanno tutti letto il suo “Le categorie del politico”. Pensano che i conflitti tra stati possono essere risolti in soli due modi, guerre e negoziati. Ambedue sono nelle mani degli Stati. L’idea di affidare la soluzione di conflitti a mani terze, a giudici, turba i sonni dei “realisti”. Quella che Marta Cartabia ha chiamato la “giudizializzazione della politica”, anche a livello mondiale, sposta un grande potere in mani diverse. Così, però, anche, i sistemi giudiziari non sono “the least dangerous branch”, per adoperare le parole notissime di Hamilton (“Il Federalista”, n. 78), perché vengono a concentrare un grande potere, non hanno più un “potere nullo”. Paradossalmente, questo percorso è lo stesso che hanno fatto nel loro interno gli Stati Uniti. Non dimentichi quel che osservava Tocqueville: non c’è quasi nessuna questione politica negli Stati Uniti che non finisca, prima o dopo, in una questione giudiziaria. Per non parlare della tramutazione dei giudici in “giudici-legislatori” (questa osservazione la dobbiamo a un italiano, Mauro Cappelletti).

 

Torniamo al commercio mondiale.

Sì, certo, per dire che questo, dal 2008, è notevolmente diminuito e che l’acciaio ha un problema particolare, quello di avere troppi produttori e un eccesso di produzione. E per dire che gli Stati Uniti stanno facendo un “revirement” rispetto agli accordi di Marrakech (1994). Ma anche per dire che tutto questo è una lezione per i piccoli Trump nostrani, i neo nazionalisti amanti delle norme antiscorrerie e antidislocazione. Anche qui si riscopre il colbertismo per difendere posti di lavoro. Non dimentichiamo quel che ha scritto Immanuel Kant nel suo “Per una pace perpetua”: se vogliamo la pace, bisogna favorire i commerci, perché solo dall’interesse reciproco di chi commercia può venire un mondo pacificato.

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